“E adesso anche quando piove
Lo vedi sempre con le spalle al sole
Con un canestro di parole nuove” (da Il Signor Hood, album “Rimmel”, 1975)
“Nessun calcolo ha nessun senso dentro questa paralisi: | gli elementi a disposizione non consentono analisi. | E i professori dell’altro ieri stanno affrettandosi a cambiare altare, | hanno indossato le nuove maschere e ricominciano a respirare. (da Bambini venite parvulos, album“Mira Mare 19.4.89”, 1989)
Racconta Enrico Deregibus in Quello che non so, lo so cantare. Storia di Francesco De Gregori, (Firenze, Giunti, 2003), a pagina 63: << (…) La “cartella-stampa” allegata al disco e destinata ai giornalisti, conteneva una scheda biografica, compilata dalla RCA in uno stile che non piacque assolutamente a De Gregori, che dichiarò “Loro fecero questa cosa che cominciava con “Francesco De Gregori, nato circa 23 anni fa sotto il segno dell’Ariete possiede le caratteristiche essenziali…”. Allora mi incazzai e come mia presentazione scrissi una mia traduzione di “Paperback Writer”. Ovvero “Vorrei essere uno scrittore di libri tascabili da leggere in treno. La musica è un alibi per diffondere quello che scrivo…”>>. Ai tempi Francesco De Gregori era diretto e determinato ma pare aver serbato intatte queste caratteristiche.
Marinai, soldati, capitani di ventura, emigranti. Buffalo Bill. Alice. Irene. L’Italia. Francesco De Gregori ha toccato e descritto molti punti entrati poi nell’immaginario collettivo,, tracciando una linea immaginifica tra il suo mondo, il suo immaginario e quello degli ascoltatori che trasversalmente ha raccolto nel corso degli anni, divenendo coincidenza e punto di riferimento. Il principe, l’ermetico, il cantautore, per brevità chiamato artista, per citare il titolo di un suo album. Francesco De Gregori è alla svolta, al giro di boa, dei settanta anni, compiuti qualche giorno fa, il 4 aprile. Si è scritto tanto su di lui e sulla sua opera. Lo descrivono come spigoloso, ombroso fuori dal palco, schivo, salvo poi essersi vigorosamente smussato nel corso degli anni. Si ricordi la sua esibizione, in qualità di ospite con tanto di giubbotto di pelle, durante una puntata di Amici di Maria de Filippi. Nulla di cui scandalizzarsi, gli anni settanta sono ormai trascorsi, del resto.
Il cantautore con la sua voce delicata dalla mirabile estensione è diventato l’inevitabile punto di riferimento per artisti di diverse generazioni, tracciando un solco che non sembra arrestarsi nonostante l’avanzare del tempo. Si pensi giusto per citarne alcuni a Luciano Ligabue, Edoardo Bennato, Vasco Rossi ed un altro Vasco, Vasco Brondi, noto per aver esordito nel 2008 con il progetto Le Luci della Centrale Elettrica. Sono in tanti ad avere il cantautore, a sua volta ispirato da Fabrizio De Andrè, come nume tutelare.
La sua opera trasuda degli echi di Bob Dylan e Leonard Cohen, intrecciati e assemblati insieme alla letteratura americana, imprinting basilare che gli ha consentito di muovere i primi passi al Folkstudio, la celeberrima fucina che ha dato i natali artistici ad Antonello Venditti, Ernesto Bassignano e Rino Gaetano.
I testi sono ermetici, storia, cronaca e lirismo si fondono in immagini spesso eteree, con il fascino dei voli pindarici. <<Venni subito accusato, era il ’75, di essere sdolcinato, ‘piccolo borghese’, perché bisognava scrivere le canzoni che parlavano al ‘movimento’. Io invece avevo fatto questa storiella d’amore. In realtà era proprio il contrario: era una caricatura della sdolcinatezza mentre raccontava in realtà una storia dolorosa perché era la fine di una relazione con annessi sangue, sudore e lacrime>>.
Pur mantenendo intatta la tradizione cantautorale, Francesco De Gregori è sempre rimasto sull’onda, l’onda della propria coerenza interna, la stessa coerenza che gli ha fatto superare l’evento del “processo popolare”, la stessa che lo ha fatto svicolare di striscio negli anni ottanta del riflusso, nei novanta dell’enorme surplus televisivo, delle chitarre distorte e dell’elettronica che preparava la svolta verso il nuovo millennio. Francesco De Gregori ha osservato tutto questo, lo ha isolato, descritto, osservato a distanza, appoggiato all’albero delle proprie certezze mentre osserva il fiume che scorre. In lontananza l’eco delle chitarre acustiche ed elettriche attraversano i vari decenni e le varie situazioni.
A proposito della Sinistra, all’interno di un’intervista ad Aldo Cazzullo, senza mezzi termini la definisce come: << (…) un arco cangiante che va dall’idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del “politicamente corretto”, una moda americana di trent’anni fa, e della “Costituzione più bella del mondo”. Che si commuove per lo slow food e poi magari, en passant, strizza l’occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini (..)>>.
Non crede più alle ideologie, da tempo. Nel 2001, in tempi non sospetti, scrive un pezzo che gli riserverà non poche critiche dal mondo politicamente corretto, Il Cuoco di Salò. Appartenente all’album L’Amore nel Pomeriggio (arrangiato tra l’altro con il contributo di Franco Battiato), Il Cuoco di Salò descrive, attraverso gli occhi di una figura sotterranea e laterale, estranea alle schermaglie e agli intrighi di potere, quella di un cuoco, il quale testimonia e riporta le sensazioni attorno ad un mondo, ad una parte di Italia considerata dalla parte sbagliata, una sequenza di volti, di storie e di stati d’animo di “(…) quindicenni sbranati dalla Primavera (…)”. Attraverso quel tassello di storia dimenticata, denigrata e rimossa Francesco De Gregori ha sempre cercato la riappacificazione tra le varie anime che hanno preso parte alle vicende italiane dopo il fatidico 8 settembre 1943 o, per lo meno, una parvenza di obbiettività cercando di depurare dal manicheismo settario. Esigenza che nasce anche da ragioni familiari. Suo zio Francesco, infatti, vicecomandante della Brigata Partigiana Osoppo (i partigiani non comunisti), ha trovato la morte nell’eccidio di Porzus compiuto da un gruppo di partigiani comunisti e filotitini. L’evento, in cui perderà la vita anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, verrà ricordato nel brano “Stelutis Alpinis”. Dichiara infatti al Secolo d’Italia: “Nella Brigata Osoppo, che mio zio comandava, c’erano azionisti, monarchici, cattolici. Il filo che li legava era una forma chiara di anticomunismo. Ma dirsi anticomunisti significava automaticamente essere tacciati di fascismo. Fu uno stravolgimento del lessico politico, un’iniquità che è durata fino agli anni Sessanta”.[1] L’esigenza di rigore nell’analisi storica, sgomberata dal piombo ideologico, diventa per il cantautore l’ennesimo atto di interesse e, perché no, di amore verso la complessità e la contraddittorietà delle vicende che competono l’essere umano.
Schietto anche rispetto alla definizione di poesia associata troppo spesso in maniera impropria, a suo dire, alle opere: << (…) Molti si riempiono la bocca con questa parola (la poesia), senza sapere che cosa voglia dire, e – sbagliando – l’accostano al mio lavoro. Sarebbe più giusto descrivere il mio modo di fare canzoni come parte della letteratura del mondo di oggi, al pari di cinema, teatro e romanzi>>.[1]
Voleva fare l’attore al punto che Paolo Pietrangeli lo raccomanda per il set di Roma di Federico Fellini ma pare che il Maestro di Rimini lo abbia scartato perché <<troppo alto e con troppa barba>>. Si rifarà brevemente in seguito con una parte in Perdutoamor di Franco Battiato.
De Gregori è riuscito a raccontare il proprio mondo, facendolo scorrere attraverso il filtro della contemporaneità, dove poesia, storia e mito si fondono in una canzone. Dall’habitus aristocratico allo sviluppo di una pirandelliana mentalità alla “così è se vi pare”. Infatti, Francesco De Gregori è “per brevità chiamato artista”.
[1] https://www.secoloditalia.it/2017/04/il-25-aprile-revisionista-di-francesco-de-gregori-una-data-divisiva-storicizziamo/
[2] Intervista ad Andrea Scarpa, Vanity Fair, n. 22, 4 giugno 2008