Tutto è incominciato una settimana fa, con un lucido articolo di Ernesto Galli Della Loggia, che sulle pagine del “Corriere” accreditava Fratelli d’Italia come partito interprete dei valori e degli ideali della destra storica, pur invitandone la leader a recidere senza ambiguità i legami non più ideologici, ma forse soprattutto psicologici con l’eredità del fascismo, o meglio, se non altro per motivi anagrafici, del post-fascismo. La presa di posizione di Galli, storico serio e commentatore di palato fino (chi scrive ricorda ancora l’intervento con cui nel 1996 bollò come “impresentabili” gli esponenti dell’allora centrodestra) non è potuta rimanere sotto silenzio nel dibattito politico. A parte il prevedibile compiacimento di intellettuali d’area come Buttafuoco e Veneziani, l’apertura di credito dell’editorialista del maggior quotidiano nazionale ha suscitato naturalmente reazioni contrastanti. Sofia Ventura, su l’Inkiesta, feroce con un’altra donna come solo certe donne sono capaci di essere, prontissime come sono a rivelare una smagliatura nell’epidermide come nel pensiero, ha ironizzato sulla “fantasiosa ipotesi di una Giorgia Meloni leader di una destra moderna”, liquidandola come una “brillante demagoga”. Più sereno, anche se anch’esso critico, l’intervento del politologo Gianluca Passarelli sul “Riformista” del 1◦ aprile, che continua a considerare FdI una destra postfascista e invita la Meloni a “imparare da De Gaulle”. Mi è parso più lucido, anche perché più distaccato dalla polemica politica, il commento di Alessandro Campi sul “Messaggero” di venerdì scorso, con un titolo (“La destra che muta non piace ai salotti ma prende voti”) che, come non sempre succede nelle redazioni, coglie il nucleo centrale dell’articolo.
Senza insistere sul tema dell’eterno esame del sangue richiesto ai leader della destra post-missina, Campi coglie il nodo essenziale della questione: il partito di Giorgia Meloni piace perché viene incontro a un’esigenza profonda di larga parte dell’opinione pubblica italiana, insofferente da un lato di una “filosofia turistica della storia” – felice locuzione per indicare il rifiuto di un radicamento nel passato, – dall’altro da una “visione cosmetico-edonistica della società”. Qui risiede la sua forza, una forza che la fa salire nelle intenzioni di voto, perché rinuncia a piegarsi alle logiche del politicamente corretto ed espone con un frasario comprensibile a tutti senza essere volgare concetti che in realtà in molti casi sono il frutto di una raffinata elaborazione della destra culturale anglosassone e soprattutto francese, da Houellebecq a Camus (Renaud, naturalmente), passando ovviamente per Alain de Benoist. Può darsi che la leader di FdI sia avvantaggiata dal fatto di essere una donna, per cui gli insulti rivolti a lei vengono condannati più prontamente di quelli rivolti agli altri esponenti di destra, comportamento che mi fa piacere anche se non lo condivido, perché secondo me gli “odiatori” andrebbero denunciati indipendentemente dal fatto che siano maschi, femmine o magari non abbiano ancora capito cosa sono. Non mi sembra, certo, da rimuovere il sospetto che la buona esposizione mediatica della Meloni sia stata facilitata dal desiderio di parte del giornalismo televisivo di favorire un concorrente dell’odiato Salvini: avvenne qualcosa di simile con Gianfranco Fini, nel 1993, quando quello che era stato il brutto anatroccolo dei dibattiti televisivi venne valorizzato nel tentativo di far sgretolare a destra parte dell’elettorato democristiano (bisognava affondare la “balena bianca”) e, negli anni successivi, in funzione antiberlusconiana. Ma, al di là del gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, in politica contano i risultati; e il risultato per ora è che le perdite subite dalla Lega post Papeete sono compensate dall’incremento di Fratelli d’Italia. È questo quello che conta, nella prospettiva di un confronto elettorale fra centrodestra e sinistra giallorossa, dall’esito tutt’altro che scontato.
Apprezzabile, nell’editoriale di Campi, è anche la scelta di non dare consigli alla Meloni, dettata anche da una sofferta esperienza che proprio l’editorialista e politologo confessa nel suo articolo non senza un filo di autoironia. Campi, infatti, fu per qualche tempo consigliere di Fini, e i risultati com’è noto (e non per colpa sua) non furono brillanti.
Resta però, a mio giudizio, il problema centrale sollevato da Galli Della Loggia, ovvero il rapporto tra FdI e il fascismo, o meglio un post-fascismo che poi è una sorta di neofascismo liofilizzato. Che a distanza di quasi settantasette anni dal crollo del regime il giudizio sul Ventennio debba costituire una discriminante per l’ingresso di un partito nel salotto buono della politica potrebbe fare sorridere. Sarebbe come se, al tempo della Costituente, il parere sulla breccia di Porta Pia fosse stato considerato una pregiudiziale per partecipare alla vita politica e dichiarare di essere contrari al potere temporale del Papa fosse stato indispensabile per ottenere una concessione di suolo pubblico. Purtroppo non è così, anzi forse la pregiudiziale antifascista pesa oggi sul dibattito politico più di quanto non gravasse in occasione della caduta della prima repubblica. Giorgia Meloni non può ripetere oggi quello che, con una brillante espressione, Gianfranco Fini disse nel 1994, quando affermò che l’Italia non aveva bisogno di un partito che difendesse il fascismo, perché il fascismo si difendeva da solo.
Si tratta di un paradosso, ma di un paradosso di cui sarebbe sbagliato non tenere conto. Se nel corso degli anni Ottanta e nei primi Novanta era in atto, soprattutto per effetto degli studi di Renzo De Felice, un processo di storicizzazione del fascismo, oggi si assiste al fenomeno opposto, ovvero alla demonizzazione del fascismo come categoria metastorica (e meta-geografica, visto il fenomeno degli antifà statunitensi), inclusiva di tutti i peccati dell’uomo bianco. È un fenomeno internazionale, e non solo italiano, cominciato – post hoc propter hoc? – dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quasi che l’enfatizzazione dei delitti del nazifascismo (categoria polemica entrata relativamente da poco nell’uso corrente) servisse a far dimenticare i crimini del comunismo, su cui dagli archivi dell’ex Urss sarebbe potuta uscire una documentazione imbarazzante per chi aveva militato negli ex partiti comunisti. È necessario dunque tenerne conto. Con molta signorilità, Galli Della Loggia ha ridimensionato certe esuberanze di esponenti o simpatizzanti di Fratelli d’Italia a reazione allergica alle “smargiassate degli antifascisti di professione”. Resta il fatto che tali “smargiassate” non sono fini a se stesse, ma rientrano in una strategia non priva di lucidità, volta a suscitare reazioni ora goliardiche ora sconsiderate, amplificate dalla Rete, destinate a giustificare a loro volta l’antifascismo, con le sue lucrose rendite non solo politiche.
In realtà, FdI, più che un partito post-fascista, è un partito post-missino, in cui parte della classe dirigente condivide il ricordo delle giovani vittime della violenza antifascista negli anni di piombo e una nostalgia per la figura di Giorgio Almirante, speculare sotto un certo profilo a quella provata da molti esponenti del Pd per la memoria di Enrico Berlinguer. Il suo elettorato non è composto da fascisti, ma semmai da anti-anti-fascisti (non sempre due negazioni affermano) insofferenti dell’uso strumentale della mitologia resistenziale. Il problema è che se nel Mezzogiorno la “memoria indulgente” nei confronti del regime è un fenomeno diffuso, da Roma in su – come dimostra la serie storica dei risultati elettorali – il frutto avvelenato della guerra civile e della Repubblica sociale, cui il Msi si rifaceva più che al fascismo storico, continua a pesare nei comportamenti elettorali. E rivendicando, un po’ per la mozione degli affetti, un po’ per motivi di marketing politico, il logo della fiamma tricolore, FdI ha finito per accollarsi un’eredità che non può essere accettata con beneficio d’inventario. Naturalmente, non sarò certo io a suggerire a Giorgia Meloni un’altra Fiuggi, ora che anche Marine Le Pen ha rinunciato all’acqua di Vichy. Ma il problema del rapporto col postfascismo si pone seriamente per un movimento che desideri superare non solo nei sondaggi quel 16 per cento dei voti che costituì la soglia storica di An, trasformandosi nel grande partito della nazione.
Caro Enrico, va rovesciata la tua logica. È l’antifascismo il vero problema, perché contiene tutte le negatività della nostra storia: tradimento, vigliaccheria, mafia, particolarismo (da cui il regionalismo), clericalismo, servilismo verso lo straniero.
Il fascismo è invece storia nostra, della migliore Italia, l’Italia di Roma del Rinascimento e del Risorgimento.
Si può storicizzare il fascismo, ma l’antifascismo va solo condannato, niente dell’antifascismo è da salvare.
Fu Roma a confederarsi con le popolazioni italiche , credo fosse l’idea di Almirante con il suo “prototipo “ non ancora pronto per quella alleanza tuttavia ,il fdg era proiettato per invece proprio per quello scopo, purtroppo è venuta meno la politica a Roma che ha virato verso interessi extraparlamentari e la decadenza tutta incentrata al mantenimento dello status quo che di politico non ha più nulla.
Pienamente d’accordo.
I postumi della guerra perduta e più ancora della Guerra Civile 1943-’45 pesano effettivamente al nord come macigni. In più c’è una caratteristica un po’ troppo ‘romanesca’ della Meloni ed alcuni seguaci a non piacere… Occorre imbarcare esponenti di qualità della società civile, della cultura ecc., altrimenti si può anche arrivare al 20% e più, ma rimangono voti sterili…
La fiamma del logo quanti voti porta? Oggi non saprei. Ricordo che all’estero quando Mirko Tremaglia commise la famosa ‘vaccata’ della Lista Tremaglia lo fregò proprio l’assenza della fiamma… Certo, gli anni son passati, gli italiani all’estero erano più legati a vecchie simbologie, ma, comunque, l’esperienza di AN, oltre a Fini, lo insegna. Senza fiamma, e ciò ch’essa significa, si perdono voti in un settore di opinione. Con la fiamma (e tutto il resto) non si va oltre una certa soglia e soprattutto diventano difficili le alleanze… Bisognerebbe avere il coraggio di definirsi liberali, non liberal, non post-berlusconiani, autentici liberal conservatori…
Carissimo Guidobono,
quello che io ho apprezzato in Galli della Loggia non sono le sue idee (per me liberalismo e socialismo sono vecchi attrezzi ottocenteschi), ma il rispetto per la storia della nostra nazione. E quando parla di smargiassate degli antifascisti si permette una libertà di opinione che in Italia rischia di scomparire…
Sottoscrivo ZiPPI..negarlo..o manipolarlo essere in malafede..
Sì, Zippi, ma il potere di Governo in Europa e nel mondo, si esercita in un altro contesto, piaccia o no..