Tra i numerosi saggi filosofici sul coronavirus (da Bernard-Henry Lévy a Zizek), primeggia per qualità di scrittura e per visioni distopiche tali da fare impallidire le peggiori apocalisse dickiane, A che punto siamo? L’epidemia come politica di Giorgio Agamben. Non solo semplice raccolta di tutti i suoi più recenti interventi sull’emergenza sanitaria che stiamo (ancora) attraversando, ma terribile testamento profetico di ciò che ci aspetta. In nome della cosiddetta biosicurezza e della salute, abbiamo rinunciato a tutto, vivendo in un limbo di eccezione e d’incertezza che viene continuamente prolungato. La domanda che Agamben ci pone non è se si troverà o meno il vaccino ma è molto più semplice: a che punto siamo e cosa stiamo diventando? Agamben conosce le risposte ma non le svelerò. Si può essere pro o contro al pensiero estremo del filosofo, ma una cosa è certa: il peggio deve ancora venire.
E a breve distanza è uscita una sorta di prolungamento di quel saggio filosofico, dal titolo Quando la casa brucia, ancora più apocalittico. Qui in gioco non sono più la pandemia e la corsa ai vaccini – che come si sta vedendo sta segnando ancora di più i confini geopolitici ed economici in mondi di serie A e in mondi di serie B! – ma l’intera nostra realtà di essere umani, appunto la casa. “Viviamo in case, in città arse da cima a fondo come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovine quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo”, ci spiega Agamben. Quale speranza possiamo avere se “una cultura che si sente alla fine, senza più vita cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente”? Ma proprio perché tutto brucia, occorre continuare a fare tutto come sempre, anche se non servirà a niente, anche se nessuno se ne accorgerà e anche se la vita come la conoscevamo sparirà e non resterà nessuna memoria… non importa perché ormai è tardi per cambiare, non c’è più tempo, perché “quel che accade intono a te, non è più affar tuo”. E ancora: “Il volto è la cosa più umana, l’uomo ha un volto e non semplicemente un muso o una faccia, perché dimora nell’aperto, perché nel suo volto si espone e comunica. Per questo il volto è il luogo della politica. Il nostro tempo impolitico non vuole vedere il proprio volto, lo tiene a distanza, lo maschera e copre. Non devono esserci più volti, ma solo numeri e cifre. Anche il tiranno è senza volto”. La conclusione non può che essere terminale, ma non così disperante, di un libro comunque estremo, terribile, heideggeriano, foucaltiano e jungeriano: “L’uomo oggi scompare, come un viso di sabbia cancellato sul bagnasciuga. Ma ciò che ne prende il posto non ha più un mondo, è solo una nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza. Forse è però soltanto a partire da questo scempio che qualcos’altro potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire – non un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo – un nuovo animale, forse, un’anima altrimenti vivente…”.
Nella speranza che Agamben abbia torto e dopo la lettura di questi due “agili volumetti”, si è tentati di prenotare un suicidio assistito in quelle cliniche bianche per una morte incolore, inodore e indolore, non prima di aver trascorso una serata a mangiare ostriche, a bere vino bianco, in compagnia di un’escort dal viso e dal corpo da sogno, mentre dallo stereo Gaber canta Far finta di essere sani. Ma poi, dopo una riflessione più “realistica”, si conclude amaramente che il futuro “escortabile” e (trans)estetico è solo per chi se lo può permettere. Perché, come scriveva il mai troppo compianto Mark Fisher, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Per dirla alla Margaret Thatcher: “non c’è alternativa”.
*A che punto siamo? L’epidemia come politica, di Giorgio Agamben, Quodlibet, p. 112, euro 10
*Quando la casa brucia, di Giorgio Agamben, Giometti & Antonello, p. 96, euro 10