«“Putin è un killer senz’anima”. La prima crisi diplomatica di Biden».
Con questo titolo il «Corriere della Sera» (18.03.2021) apre la pagina di politica estera con la quale descrive l’incidente diplomatico provocato dalle violenti parole proferite dal presidente statunitense Joe Biden ai danni dal presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin. «Pensa che Putin sia un assassino? Mmmm, penso di sì. E gli ho anche detto che non credo abbia un’anima […]», ha affermato Biden, in un’intervista condotta da George Sthephanopoulos per l’emittente televisiva Abc. Il ministero degli Esteri russo ha prontamente risposto, richiamando in patria l’ambasciatore russo a Washington Anatoly Antonov. «Biden ha offeso i cittadini del nostro Paese, è un’isteria causata dall’impotenza» ha affermato il presidente della Duma Viaceslav Volodin, ribadendo fermamente che «Putin è il nostro presidente e gli attacchi contro di lui sono attacchi contro il nostro Paese».
La sceneggiatura a cui si sta assistendo è perfettamente in linea con la politica estera sposata dall’ex presidente Barack Obama (Premio Nobel per la Pace) e fatta propria dall’entourage del Partito Democratico statunitense. L’ex presidente degli Stati Uniti fu il principale ispiratore (degno di nota fu il suo discorso, pronunciato all’Università del Cairo, il 4 marzo 2009) e promotore di quelle sollevazioni popolari cui i media diedero il nome di “primavere arabe”, la cui onda finale vide la destabilizzazione dello stato siriano e l’apertura di una crisi (la quale ha investito a cascata gli stati confinanti: basti vedere la situazione drammatica che vive il Libano attualmente) che ancora stenta a terminare.
Violenze, recrudescenze del fondamentalismo islamico, colpi di stato continui, caos sistemico in tutta la regione medio-orientale così come nel Maghreb (non omettendo di ricordare il rovesciamento del presidente libico Gheddafi e ciò che da lì ne sarebbe conseguito) sono stati il comune denominatore della politica interventista yankee, da Bush padre (almeno) a Joe Biden, senza soluzione di continuità. L’unica eccezione a tale traiettoria l’ha rappresentata Donald Trump, il quale durante la sua presidenza alla Casa Bianca ha incarnato l’anima paleoconservative dei Repubblicani, basata sul non interventismo in politica estera (nonostante qualche ingenuità l’abbia commessa anche lui, per esempio ordinando l’uccisione del generale iraniano Soleimani) e un saldo conservatorismo in politica interna.
Le parole pronunciate da Biden, oltre a rivelare una verve aggressiva che ha lasciato stupefatti anche i suoi più stretti collaboratori, mettono ancor più in luce l’impostazione fortemente contraddittoria della scuola liberal statunitense e dell’ideologia liberale in senso lato. La narrazione di cui si fa portavoce la potenza nordamericana è quella incentrata sulla promozione dei diritti umani (che facilmente sconfina nella ideologia, in quanto ignora il dato di natura, è aprioristica e, dunque, chiusa ad ogni reale ricerca della verità: un diritto senza un corrispondente dovere è un abuso), sulla emancipazione dell’individuo (atomo isolato) ai danni della persona (che vive di legami: spirituali, culturali, nazionali, sessuali) e, infine, sull’esportazione di un modello politico (democrazia liberale occidentale) e di un sistema economico, ritenuti unici ed indiscutibili, fondati sulla spoliazione del concetto di autorità (imprescindibile in un consorzio civile e che si sostanzia nella “libertà di” avverso la “libertà da”) e sulla primazia del mercato, senza alcuna “interferenza” (sia pur correttiva) da parte dello Stato.
La ricerca della pace si costruisce con la cooperazione internazionale e il dialogo, franco, serrato, talvolta duro, ma mai diretto a offendere gratuitamente l’avversario politico, rischiando di far precipitare verso esiti imprevedibili una situazione già abbastanza incerta come quella cui si sta vivendo. L’establishment statunitense ed europeo darebbe un segnale di grande maturità politica se prendesse le distanze da ogni tentativo di esacerbare delle tensioni ricorrendo ad una dialettica poco opportuna e tutt’altro che diplomatica.
Riflettere e ragionare su tali considerazioni consente di leggere gli eventi in un quadro più ampio e svelare avvenimenti al di là di facili retoriche e disquisizione emotive. Comprendere lo Zeitgeist del tempo è un dovere da cui ripartire per saper opportunamente offrire una risposta quanto più “in ordine” rispetto ad un tempo, il nostro, il quale sebbene “informi” non possiede più la capacità di “darsi una forma”.
I Democratici, da Wilson a F.D. Roosevelt, da Kennedy a Johnson, da Clinton a Biden, son sempre pericolosi in politica estera.
Alla base della visione dle mondo statunitense c’è la presunzione di una superiorità morale dell’America rispetto all’Europa da cui partirono i coloni del Mayflower. Tale presunzione può manifestarsi sia nell’isolazionismo prevalente fra i repubblicani (“non ci sporchiamo le mani con il vecchio mondo corrotto…”), sia nell’interventismo democratico, fondato sul mito della “crociata”. Un discorso a parte merita il rapporto col subcontinente americano, considerato il “giardino di casa”.
Nel Novecento, le guerre le hanno volute i democratici, anche se gli errori di tedeschi (la guerra sottomarina indiscriminata) nel primo conflitto mondiale, e dei giapponesi (Pearl Harbour) sono stati determinanti ad accelerare un intervento che era nella logica delle cose. Fu Kennedy a volere la guerra del Vietnam, Johnson a portare avanti l'”escalation”, e toccò al tanto demonizzato Nixon avviarla alla conclusione (se non fosse stato costretto a dimettersi per aver rubato la marmellata l’avrebbe conclusa in maniera più decorosa…). Poi è stata la volta di Clinton, che mentre il fanatismo musulmano cominciava a minacciare l’Europa ha bombardato la Jugoslavia per creare una specie di Stato canaglia in Kosovo, risvegliando la solidarietà panslava e il nazionalismo russo.
Con Bush Jr., pericoloso come tutti i bevitori pentiti, queste categorie interpretative sono entrate in crisi: è stato lui a impelagare gli Stati Uniti in Afganistan e in Iraq. Ma Obana, dopo aver incassato il Nobel per la Pace per incoraggiamento, ha fatto molto di peggio, con le cosiddette primavere arabe, che hanno destabilizzato il Mediterraneo.
Detto questo, Putin non è uno stinco di santo e quando rimprovera agli Usa l’uso dell’atomica non dovrebbe dimenticare che l’Urss aspettò Hiroshima per aggredire maramaldescamente il Giappone ormai alle corde, violando il patto di non aggressione firmato con Tokyo il 3 aprile 1941, per impadronirsi delle isole Curili.
E noi italiani continuiamo a crocifiggerci per la “pugnalata alla schiena” nei confronti della Francia, con cui non avevamo stipulato nessun trattato! Antico autolesionismo nazionale…
Gli statunitensi sono prepotenti, prevaricatori ed ipocriti di natura, specialmente i Democratici. Conosciamo la loro storia e quella delle loro presunzioni ‘etiche’….Detto questo, ribadito che non dispongono di credenziali morali per accusare Putin di alcunchè, che sleepy Biden è ora una patetica marionetta rincoglionita, abbiamo forse alternative alla NATO o all’U.E.? No.
Figurati Stalin… Nel 1941 Hitler scatenò una guerra preventiva perchè era certo che l’URSS alla faccia del Patto Ribentrop-Molotov aspettava solo il momento buono per aggredire la Germania. Ed il nazismo non c’entra.