
Ho letto molte commemorazioni di Gianni Agnelli, e anche molti elogi, senza dubbio assai minori di quelli, spesso compiaciuti e compiacenti, che gli furono tributati in vita, quando la Fiat era una potenza a volte vendicativa nell’ambito economico, politico, sportivo e giornalistico (lo sa bene il mio amico Luciano Garibaldi, che si vide declassato nel suo ufficio a “Quattroruote” per aver pubblicato sul “Secolo d’Italia” un fuorisacco al vetriolo sull’Avvocato). Io personalmente non l’ho mai amato, e soprattutto non ho mai amato gli snob che l’imitavano in tutto, persino nell’orologio sul polsino, avara consuetudine contadina dettata dalla preoccupazione di non far sfilacciare il tessuto che lui elevò al rango di moda con la iattanza di chi non deve seguire le mode perché fa lui la moda.
Debbo tuttavia riconoscere a Gianni Agnelli almeno due meriti: quello di avere fatto la guerra non da imboscato, ma sul fronte russo, e quello di aver voluto, in barba al regolamento della Fgci, che la Juventus giocasse con il lutto al braccio perché, il 18 marzo 1983, era morto re Umberto II. In quell’Italia pavida che ancora condannava all’esilio i discendenti di casa Savoia e che non faceva esporre le bandiere a mezz’asta per la morte di colui che era stato, sia pure per poche settimane, il capo dello Stato italiano, Gianni Agnelli (per l’esattezza suo fratello Umberto, presidente della Juventus, a cui lo chiese) compì un gesto di coraggio.
Credo che i due titoli di merito fossero intimamente legati: l’Avvocato, così chiamato per un vezzo giornalistico nonostante che avesse fatto il legale quanto Dante aveva fatto il farmacista, aveva giurato fedeltà al re come ufficiale di complemento, si sentiva, anche una volta smobilitato, “un soldato”; anche per questo aveva votato per la monarchia al referendum istituzionale, pur dando per scontato che prevalesse la Repubblica. Si può pensare quello che si vuole di Casa Savoia, ma quello dei due Agnelli fu un bel gesto, e quella lontana domenica di marzo mi sorpresi a tifare per la Vecchia Signora. Il colmo per un fiorentino che nel 1969, l’anno del secondo scudetto viola scandiva lo slogan un po’ canagliesco “e chi tifa per gli juventini, fa la fine del Lavorini”.
p.s. Per gli under 60 (spero la maggioranza dei lettori). Ermanno Lavorini era il ragazzino che il 31 gennaio 1969 fu rapito – caso all’epoca senza precedenti – a Viareggio e poi fu trovato morto sulla spiaggia di Marina di Vecchiano. Per la sua morte purtroppo furono condannati alcuni giovani che risultarono iscritti al Fronte monarchico giovanile. Ma questo è un altro discorso…
Bel gesto, indubbiamente. A Torino si può anche essere comunisti, si possono vedere tutti gli errori di Casa Savoia, ma rimane il sostanziale rispetto verso la dinastia che ci ha governato per centinaia d’anni, senza mai una rivolta popolare. Anch’io a 15-16 anni per un breve periodo frequentai ambienti monarchici, mio zio fu candidato alla Camera del PNM ecc.
…e conservo una foto di Umberto II con dedica…
Infatti il più grosso errore della RSI in Piemonte fu di avere una connotazione antimonarchica.
A sì, e allora Guidobono saprai certo riferire i nomi di due mitici conduttori monarchici di Televox degli anni 90 (un avvocato e un ingegnere) o almeno descriverne la situazione…
Aveva ragione Evola che era contrario alla Repubblica nel ’43.
L’orologio sul polsino perchè aveva perso il bottone. Il solito fesso lo vide, lo propagò…divenne una moda della quale il primo a ridere era lo stesso Gianni A. ! Ma se gli idioti ti prendono come modello (tipo Ciano quando imitava il suocero Duce parlando in pubblico) che ci fai?
Direi che GA non lo imitavano gli snob, ma i fessi. A Torino abbiamo per lo più sempre amato poco l’avvocato, ricambiati. Un merendone vanesio che correva in auto come un pazzo per i corsi all’uscita da Mirafiori. Circa la tesi di Luciano Garibaldi, e dei Diari di Vanni Teodorani, sul desiderio degli americani di sottrarre il Duce a inglesi e comunisti nell’aprile ’45, mi permetto dissentire (e ciò lo dissi in passato pure al caro collega Pigi Teodorani, ben prima della loro pubblicazione). Gli americani si misero di mezzo non per contrastare i propositi inglesi, ma per agevolarli, come si vide col senno di poi. Altrettanto vale per l’altra tesi del figlio di Marcello Petacci, circa assicurazioni fasulle fornite da agenti inglesi, dei quali Claretta sarebbe stata informatrice. Lo scopo di tutti, italiani, inglesi, americani, era di far tacere Mussolini, per sempre, non di farlo parlare. Tanto meno di salvargli la pelle. Se si fosse rifugiato nell’arcivescovado di Milano dal cardinale Schuster, forse Pio XII poteva salvargli effettivamente la pellaccia, ma pure lui: che cosa ci guadagnava a quel punto? E altrettanto dicesi per Wolff…
Combatté anche in Africa Settentrionale, e fu decorato di Croce di Guerra al Valo Militare