Questo è un racconto, un ricordo, non una recensione; piuttosto una reminiscenza rubata a un sogno, a un gioco delle ombre cinesi sul muro. Quarant’anni e passa fa Eugenio, Alberto ed io parlavamo di lui, con un’ammirazione incredula. Eugenio, Alberto ed io con le mani affondate nelle tasche dei nostri Montgomery, per una via Caracciolo deserta e battuta dalla tramontana. Alberto aveva in tasca una scatola di proiettili, buoni per la Beretta lasciata a casa.
All’epoca chi poteva si armava, anche per autodifesa. All’epoca noi con le tasche vuote – a parte i proiettili – mitizzavamo Paolo, l’enfant prodige sottrattosi alle catacombe di una cultura politica minoritaria e demonizzata dai benpensanti. Lui l’aveva lacerata precocemente, questa camicia di forza. Lui era assurto fino all’empireo de Il Giornale, chiamato a sé dal padreterno Indro Montanelli. Paolo il pozzo di dottrina, l’alieno. Quella sera il cielo ci appariva rossastro, al largo lampeggiava. La linea di costa era punteggiata di lucine intermittenti, le macchine sfrecciavano a pochi metri da noi, furenti e competitive come su una pista da corsa. Noi tre eravamo diretti verso una libreria-covo-fortilizio annidata sui Quartieri Spagnoli (la gestiva un altro ingegno che è andato oltre). Paolo, che conoscevamo solo tramite la lettura dei suoi pezzi, vagava tra Napoli e Milano. Per noi tre, dunque, Paolo si riduceva al nome e cognome di un’eccezione che, in quanto tale, non poteva rappresentare un modello o una via di fuga esemplari. L’eccezione rappresenta solo se stessa. E noi, suoi coetanei, potevamo ammirare la parabola ascendente di Paolo solo favolosamente, da lontano.
Questo circa quarant’anni or sono. Il che significa: un battito di ciglia fa (per la memoria individuale la distanza dei decenni si abolisce in un nanosecondo, durando la vita umana una frazione di secondo). Un battito di ciglia fa il cicalino del citofono, qui e adesso. Il corriere gracchia che deve recapitarmi un plico: mi affretto a indossare la mascherina. Nel 1980 Eugenio, Alberto ed io provavamo ribrezzo per le maschere, i bavagli ci ripugnavano, eravamo convinti che valesse la pena di non chinare la testa…Nel 1980 Paolo ostentava di disprezzare Verdi. Forse per scandalizzare i benpensanti della cultura egemone – i nostri comuni nemici – gli anteponeva Meyerbeer (poi ha fatto ammenda, lui non ha mai avuto timore di rivedere un giudizio). In ogni caso ignoro cosa e dove sia Paolo, adesso. So solo che ho squarciato questo involucro postale con un presagio. Ecco la forma che Paolo ha assunto ora: un libro, il suo ultimo. Eccolo il senso delle opere: restare dopo che i giorni a nostra disposizione sono terminati, in uno con il loro conto alla rovescia. Un countdown che può concludersi quando meno te lo aspetti, la morte ci accompagna più vicina a noi della giugulare. È una beffa, d’accordo. È la maschera grottesca e malinconica che fuoriesce dal plico appena lacerato. Paolo Isotta, San Totò, Marsilio.
Un santo (Federico Fellini dixit) appartenente a quale confessione? Alla religiosità napoletana, dunque alla stessa fede sincretista e pagana apertamente professata da Paolo. Un blando credere in Gesù (troppo storico), molta venerazione per i santi: gli archetipi delle grandi forze astoriche che reggono – e tengono insieme – i vari piani della realtà. San Totò tale per “i miracoli che faceva in scena” era venuto al mondo in via Santa Maria Antesaecula. Maria Antesaecula: quasi a voler dire che il principio femminile incarnato dalla Vergine e Madre è antecedente i secoli, la Storia, il Tempo. Questo è un racconto, un ricordo, non una recensione, piuttosto una reminiscenza rubata a un sogno, un gioco delle ombre cinesi sul muro. Per me quella targa – via Santa Maria Antesaecula – sovrasta l’imboccatura di un vicolo che, dopo decenni, ancora mi chiama a sé come l’occhio recondito di un ipnotizzatore. In quella strada abitava un mio compagno delle elementari, minuto e vispo quanto io ero alto ed introverso per la mia età. Antonio saltellava come un passero, io ero già assimilabile ad un istrice. Quel bambino era intelligente di un’acutezza riscaldata dal cuore. Grazie a ciò aveva intuito quanto la mia selva di aculei avesse solo una funzione difensiva. Antonio Liuzzi rappresentava un figlio naturale della Città vecchia e bassa. Paolo era diventato napoletano quanto e più di lui, affiliandosi però a quella Napoli, essendo nato in corso Vittorio Emanuele: la lunga cerneria tra la Città nuova, alta e l’agglomerato storico a valle. Paolo è stato attratto lungo tutta la sua esistenza dal substrato antropologico e linguistico che ha fatto da humus a San Totò. Perché via Santa Maria Antesaecula, la Sanità, più in generale tutto il tessuto dell’antico centro costituiscono una sintesi di vitalità all’estremo e di macabro al massimo della scarnificazione. Cripte, reliquie, catacombe, cibo fumante, fermentazione, coito, carni squarciate e interiora fumanti: tutto condensato nelle pietre e negli odori di un nucleo urbano. Tutto precipitato nella maschera e nelle movenze di san Totò, oscene come un culto fondato sull’accoppiamento di sesso e morte, con l’inevitabile conseguenza del riso. Un riso che non tollera leziosaggini, esattamente come Paolo.
Inevitabile che un testo consacrato a San Totò attendesse il suo autore al confine liminale della sua esistenza. Proteso fin quasi oltre il bordo di essa. Riapro il computer in modo macchinale, come in un dèjà-vu. Paolo si riaffaccia nel biancore luttuoso di sfondo, attraverso i caratteri e la prosa della sua ultima mail: “Ho trascorso otto mesi di reclusione per giungere a consegnare al mio Editore l’impresa più titanica della mia vita, nientemeno che un libro intitolato San Totò”. Il libro postumo di Paolo si apre con la scena dell’alto delle apocalittiche esequie di Totò, dentro e fuori la basilica del Carmine. Con la folla che ondeggia sul sagrato pieno all’inverosimile, dando vita ad un’entità terrifica e ingovernabile. Una specie di mare in tempesta quando soffia il libeccio. Avevo dieci anni, all’epoca. Ricordo anch’io, in un bianco e nero ombrato, quella sorta di sincope che fermò il tempo collettivo della città. Fu una cesura, uno sgomento da sopravvissuti. A tutt’oggi mi appare come una reminiscenza rubata a un sogno, più o meno come la vita.
*Da Il Corriere del Mezzogiorno del 7.3.2021