La mondializzazione ha delle costanti che la caratterizzano: delocalizzazione della produzione, sviluppo del precariato per facilitare il reclutamento di mano d’opera in base alle esigenze della produzione, senza vincoli economici previsti per legge; immigrazione di massa per disporre di un elevato numero di forza lavoro che, di volta in volta, può essere utilizzata a secondo delle esigenze, scaricando il peso sociale sul welfare. Sono processi collegati fra loro che alimentano il turbocapitalismo.
In parallelo, vere e grandi multinazionali e falsi benefattori, a livello internazionale che, attraverso fondazioni, spingono lobby, media, partiti politici, Ong, sindacati sempre più collusi con il Grande Capitale per una strategia che favorisca l’immigrazione, decisiva per il rilancio dell’economia delle grandi imprese. Eppoi, gli immigrati vengono fatti passare per “utili risorse” e viene elencata una serie di dati che non ha riscontro con la realtà, come il risanamento della bilancia dei pagamenti, il versamento di contributi che favorirebbe il pagamento della pensione agli anziani, ecc. La loro presenza viene anche rimarcata come soluzione ai problemi legati alla crescita zero. L’ attività di supporto a questi programmi, svolta da alcune ONG ben pagate dalle lobby, contribuisce a supportare questi piani. Anzi, il loro intervento influisce direttamente sulla politica degli Stati e dell’Unione europea. Il loro fine non è umanitario, basti verificare chi finanzia le missioni, le modalità usate per la ricerca dei clandestini e profughi nei pressi delle coste dell’Africa. In un libro-inchiesta, Giuseppe de Lorenzo (Arcipelago Ong, La Vela ed., pagg. 192, euro 12,00; ordini: info@edizionilavela.it) ha chiarito molti interrogativi sulle ong, analizzando i collegamenti tra organizzazioni, flussi finanziari e incontri con i trafficanti di uomini, veri schiavisti del XXI secolo. Lo scopo, alla fine, è quello di colpire l’Europa e abbattere le frontiere, scardinandole con i sempre crescenti flussi di immigrati. Le ong, sotto il paravento umanitario, dimostra De Lorenzo, forniscono invece manodopera a prezzi stracciati da utilizzare nei campi per la raccolta di frutta e ortaggi, nelle fonderie, nelle fabbriche in genere. Non a caso gli emigranti che sbarcano sulle coste europeee sono al 90 per cento giovani uomini fra i 17 e i 35 anni circa, in buona salute. Non è casuale che le donne sono in numero nettamente inferiore. Quindi ci sono ondate di uomini dal Terzo mondo aiutati nel trasferimento in Europa da una struttura ben organizzata. E’ ovvio che il fine delle lobby è creare una classe di lavoratori sfruttati per pochi soldi che altereranno il costo del lavoro a discapito dei lavoratori locali che, per meno del minimo del necessario per la sopravvivenza, non vorranno più fare quei lavori, non certo per “snobismo”.
I migranti accettano quattro soldi in cambio di duro lavoro perché in prospettiva attendono il riconoscimento di un permesso di soggiorno, poi la cittadinanza e quindi un contratto di lavoro in base alla legge. Ecco perché per la traversata i migranti sono disposti a pagare agli scafisti fino a 4mila euro (quelli che possono permetterselo) pur sapendo che una volta in Europa saranno sottopagati per molte ore di lavoro. Ma, stando così le cose, un contratto di lavoro secondo legge non lo avranno mai perché, subito dopo, nuove ondate di uomini dall’Africa arriveranno, disposte a lavorare quasi gratis. Anche perché i capitalisti ricercano personale a basso o bassissimo costo. Dettano legge le esigenze di produzione e di circolazione delle merci. Gli uomini sono considerati – e trattati – come forza lavoro mercificata. Tutto questo viene spacciato dai media e dalle élite intellettuali come diritto di circolazione di uomini e merci nel nome della libertà e dei diritti. Alla base, lo sfruttamento e il dumping salariale delle élite capitaliste, liberali e dei radical chic della sinistra.
Tutto questo ha i suoi costi, molto alti in termini sociali, di welfare e di ordine pubblico. È sufficiente vedere i disastri avvenuti nelle nazioni dove l’immigrazione ha superato la soglia del 5 per cento della popolazione. E’ stupefacente come la sinistra europa, specie italiana e francese, i progressisti, spaccino gli immigrati per “risorsa” per l’Europa. Lo sono per il Grande Capitale, piuttosto. Chi si oppone a questo disegno per la difesa dell’identità e per contrastare lo scontro sociale che si profila è definito razzista, xenofobo, nazionalista, reazionario, fascista ecc. Invece, si tratta solo di chi ha capito il “gioco”. Il dibattito s’inasprisce fra chi vuole l’immigrazione nel nome di una visione cosmopolita e individualista, a favore dello sradicamento di masse di uomini dalle proprie tradizioni, usi, costumi, credenze e chi vuole salvaguardare il patrimonio dell’identità. Come dice giustamente Diego Fusaro, “l’inconfessabile obiettivo del monoteismo del mercato – occorre insistervi – non consiste nel portare i migranti al rango dei cittadini, ma nell’abbassare al livello dei migranti i cittadini degli Stati nazionali (dissolvendo l’idea stessa di cittadinanza) costretti ai lavori più umili con remunerazioni infime, privi di diritti, della coscienza oppositiva e di una lingua con cui articolare le loro richieste di integrazione e riconoscimento”. Insomma, sinistra, liberal e radical chic sono inconsapevolmente e implicitamente razzisti.
Un libro inquadra bene il problema: è opera di un sociologo e politologo interessante, Giuseppe Giaccio (Homo migrans. Un’analisi realistica dell’immigrazione, Diana ed., pagg. 189, euro 14,00; ordini: dianaedizioni.com). L’autore fa il punto, senza fare sconti, sulla situazione con analisi, riferimenti, percentuali, statistiche, paragoni. Lontano da “narrazioni rassicuranti”, mostra molto bene come la figura del migrante abbia un’origine evidente: quella ideologica che deriva dal déracinement dalla visione cosmopolita dell’esistenza, dal relativismo, dal materialismo, ed esamina gli esiti concreti – e preccupanti – di una simile visione. Per fare questo analizza la posizione della Chiesa, la realtà del Mediterraneo dando uno sguardo anche alla geopolitica del Mare Nostrum, passa in rivista il dibattito e le contraddizioni sullo jus soli e lo jus sanguinis con tanto di fanatismo e contraddizioni. Oltre alla difficile integrazione da un parte e la globalizzazione dall’altra, la crisi economica, le ondate migratorie. Nella conclusione, Giaccio analizza fenomeni sociali che contribuiscono a rendere difficile la convivenza e le relazioni umane in genere. A tutto questo si aggiunga l’incremento mondiale della popolazione e le difficoltà che si profilano all’orizzonte dell’Europa divengono sempre più minacciose.
Peraltro, in Europa qualcuno aveva lanciato l’allarme contro un fenomeno che con il tempo è difficile governare o quanto meno contenere. Enoch Powell, autore del “Discorso dei fiumi di sangue” (Italia Storica ed., pagg. 62, euro 10,00; a cura di Andrea Lombardi; prefazione di Davide Olla e pubblicazione di un articolo di Maurizio Serra del 2008). Uomo politico di singolare cultura, prima deputato conservatore poi unionista, eletto nel collegio di Wolverhampton, vicino Birmingham, nella tv locale Atv, Powell tenne un discorso, il 20 aprile del 1968, detto “dei fiumi di sangue” perché previde tragedie per l’Inghilterra se non fosse stata bloccata l’immigrazione da tutto il Commonwealth e fece un richiamo alla predizione della Sibilla cumana tratta dall’Eneide. Disse: “Quando guardo avanti, sono pieno di presagi; come un antico romano mi sembra di vedere ‘il fiume Tevere schiumare molto sangue’”. Tutto era cominciato con la legge “Race relation act” contro l’incitamento all’odio razziale varata dal governo laburista. Per Powell era fonte di discriminazioni verso gli inglesi e denunciò situazioni minacciose e critiche che vivevano gli inglesi in certi quartieri di tante città, ormai “invasi” da immigrati. Era semplice il programma di Powell, uomo dal grande eloquio e dalla profonda cultura e conoscitore di cinque lingue, fra cui l’italiano: bloccare l’immigrazione e avviare una politica di umani rimpatri. Ebbe molto seguito, specie nella classe lavoratrice, e per molti inglesi il suo non era razzismo ma un’inizitiva di giustizia sociale finalizzata a risolvere un problema che già allora era grave, come sottolineava Powell. In alcune aree ad alta densità di immigrati gli inglesi si sentivano minoranze discriminate dalla politica del governo.
L’arrivo di masse d’immigrati non qualificati, e quindi inutili alla produzione altamente tecnologica d’oggi, non ha nulla a che fare con “ragioni del capitalismo” quanto con una degenerazione culturale politically correct in salsa catto-progressista…
Io credo che le identità non si cancellino “perchè qualcuno lo vuole” o perchè arrivino migranti… Pensiamo al fatto che l’identità collettiva della maggioranza degli italiani dell’800 e parte del ‘900 era ancora quella contadina. Ma quella civiltà contadina era condannata dall’avvento della civiltà industriale, della tecnica, delle macchine e delle sensibilità moderne (quelle, per dirlo semplice, della scuola obbligatoria, della casa riscaldata, del WC, dell’auto, delle vacanze…). Se poi parliamo d’identità aristocratica dovremmo tirare in ballo l’avvento della borghesia ecc. L’identità non è “La spigolatrice di Sapri” o “Cuore”, ma un qualcosa di molto più complesso, partendo dal fatto materiale, l’urbanizzazione, la secolarizzazione ecc. Vale per l’Italia e per il mondo…
Il turbocapitalismo esiste solo nella mente di Fusaro…