Ai belgi, il Congo ha dato i diamanti e tante altre risorse del suolo e del sottosuolo. A noi italiani, invece, ha preso il sangue. L’assassinio dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci è avvenuto per una sinistra coincidenza nell’anno in cui ricorre il sessantesimo anniversario del massacro di Kindu, una tragedia dimenticata in una nazione tanto pronta ad autoflagellarsi per le vere o presunte responsabilità del proprio colonialismo quanto incline a rimuovere la memoria delle vittime dei propri interventi umanitari. E quei tredici aviatori italiani appartenenti alla 46ma aerobrigata che sabato 11 novembre 1961 sostavano nella base di Kindu, in Congo, dove erano atterrati per recare medicinali e generi alimentari, possono essere davvero considerati i protomartiri delle nostre missioni di pace. Erano partiti dall’aeroporto militare di Pisa per recare, nell’ambito di una missione Onu, viveri e medicinali alla popolazione del Congo. Da poco uscita dal regime coloniale belga, la regione era dilaniata da una feroce guerra civile, che aveva visto l’assassinio del primo ministro Lumumba e la secessione della ricca provincia del Katanga, controllata dal leader indigeno Ciombe, sostenuto da mercenari bianchi. Purtroppo, operando sotto l’egida dell’Onu, i nostri aviatori si sentivano sicuri, tanto da lasciare l’armamento individuale nel velivolo prima di recarsi nella mensa della base di Kindu a consumare un tardivo pasto. Questo eccesso di fiducia risultò fatale: intorno alle quattro nella sala mensa irruppero circa ottanta miliziani congolesi, appartenenti alla fazione di Gizenga, successore di Lumumba. Reduci da una sconfitta contro i secessionisti del Katanga, erano in preda all’alcol e assetati di rivalsa. Avevano visto gli aerei italiani atterrare e forse si erano convinti che avessero sbarcato mercenari. I nostri aviatori – a parte il tenente medico, che fu freddato in un tentativo di fuga – furono fatti prigionieri e poi falciati dai mitra; i loro corpi vennero trasferiti in una fossa comune nella foresta dal custode del carcere e solo tre mesi dopo le salme vennero recuperate e trasferite all’aeroporto di Pisa, dove nel 1963 vennero traslate in un sacrario in stile razionalista di cui in pochi conoscono l’esistenza, ma che fu costruito, grazie a una sottoscrizione pubblica, su progetto dell’architetto Giovanni Michelucci nelle adiacenze dello scalo.
La vicenda di Kindu, già ricordata su Barbadillo anche da un bell’articolo di Marco Petrelli (https://www.barbadillo.it/31577-aeronautica-cinquantatre-anni-fa-massacro46-aerobrigata-kindu/), si presta a molte chiavi di lettura. La commozione che suscitò nel Paese fu vastissima, anche se bisogna dire che il Partito comunista fece a lungo circolare nelle “cellule” la fake news (ma allora non si chiamavano così) che in realtà i nostri aviatori portassero armi ai katanghesi. Il motivo c’era: i responsabili della strage erano seguaci del defunto Lumumba, che “L’Unità” dopo la sua morte aveva celebrato a caratteri di scatola come un “eroe negro” (allora si diceva così). E i seguaci di un eroe negro non potevano essere dei volgari assassini.
Bisogna aggiungere a questo che il disordine in cui era caduto il Congo dopo la decolonizzazione, di cui fu indiretta conseguenza anche la strage dei nostri aviatori, fu provocato dalle condizioni in cui la regione era stata abbandonata a se stessa dal colonialismo belga, uno dei più avidi e cinici dei colonialismi europei ed extraeuropei. A differenza degli altri colonialisti “latini” (penso a noi italiani, e ai francesi) i belgi si preoccuparono soltanto dello sfruttamento delle enormi risorse del “Libero Stato del Congo”, che re Leopoldo era riuscito a farsi assegnare come possedimento personale alla conferenza di Parigi (e dire che il grande scopritore della regione era stato un italiano, Paolo Savorgnan de Brazzà). In realtà lo Stato del Congo era così poco libero che agli indigeni che non raccoglievano la quantità richiesta di gomma ogni giorno era minacciato (e spesso praticato) il taglio di una mano. E, a conferma della vecchia massima che spesso tendiamo ad accusare gli altri di quello che in realtà abbiamo fatto o faremmo noi, dovendo inventare una bufala che fosse in grado di commuovere l’opinione pubblica internazionale i belgi invasi nella grande guerra fecero circolare la menzogna che i tedeschi tagliassero le mani ai bambini. Una bufala gigantesca, che solo in seguito si sarebbe rivelata tale, e che avrebbe indotto nel secondo conflitto mondiale parte dell’opinione pubblica a non prendere sul serio le voci inquietanti sulla sorte degli ebrei nei Lager.
Un’ultima, altrettanto amara considerazione: passata l’emozione iniziale, la grassa Italia del centrosinistra e del miracolo economico si scordò dei martiri di Kindu. La burocrazia militare ci mise forse del suo. Solo nel 2004 fu concessa loro la medaglia d’oro alla memoria al valor militare e solo tre anni dopo i parenti ottennero un risarcimento. Speriamo che nel caso dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci la nostra memoria sia meno labile.
Al di là delle responsabilità di chi doveva garantire sicurezza al nostro sventurato Ambasciatore (e suoi accompagnatori) in un’area pericolosissima e non l’ha purtroppo fatto – da accertare – mi rimane un dubbio: ma Roma manda in Congo un rappresentante dell’Italia o una sorta di volontario-cooperante, quelli pieni di amore e compassione, che si fanno le fotografie con i bambini del posto, come da alcuni precedenti in materia? Perchè non ho letto di altri rappresentanti diplomatici presenti in quel luogo per una (credo) riunione operativa coordinata dalla missione ONU o dal dipendente World Food Programme. Forse andrebbe anche riconsiderato il ruolo e la funzione di un Ambasciatore, non certo di pura testimonianza o presenza, tanto per dare credibilità e visibilità alle varie missioni ed iniziative ONU, presenti in loco da una sessantina d’anni e senza risultati apprezzabili o di ONG. Altrimenti, molto meglio non mandarci nessuno. Chi ci va per spirito umanitario, per solidarietà con gli ultimi, o per spirito d’avventura tra le 120 bande armate del luogo, benissimo, ma lo fa a suo rischio e pericolo. L’Italia, il suo governo, non paga riscatti per nessuno, meno che meno per il suo Rappresentante ufficiale, ammesso che inizialmente volessero rapirlo, come si legge oggi… E l’obbliga a muoversi esclusivamente su di una vettura blindata… come fanno gli americani (e non solo).