La saggistica sul Ventennio si arricchisce di uno studio accurato su Benito Mussolini e il suo retroterra filosofico. L’autore è Adriano Scianca, giornalista de La Verità, scrittore e direttore del Primato nazionale. Qui un dialogo che consente di approfondire alcuni temi della ricerca filosofica sul capo del fascismo e apre – allo stesso tempo – ulteriori sentieri di speculazione storico-politica. ***
Adriano Scianca, come si approcciava alla filosofia l’autodidatta Mussolini?
“In modo vulcanico, certo non sistematico, ma con una curiosità costante per tutta la sua vita. Mussolini era curioso delle novità intellettuali, si abbeverava a tutte quelle correnti e a tutti quegli autori che potevano aiutarlo a comprendere il suo tempo. Aveva inoltre una capacità – riconosciuta nel corso degli anni da molti suoi interlocutori – di afferrare al volo il nocciolo dei problemi. Viceversa, la sua cultura era piuttosto traballante sui classici, su quel fondale di conoscenza che deriva dallo studio accademico e che non sempre è immediatamente spendibile nell’attualità”.
Perché è sempre stata sottovalutata nelle vulgate storiche la formazione filosofica del leader del fascismo?
“Per un misto di pregiudizio ideologico e pigrizia intellettuale. Inoltre va considerato un fattore: mentre sul nazismo esiste una narrazione mefistofelica, e quindi c’è anche la necessità di prenderlo sul serio per approfondirne il fondale filosofico e capire “come è stato possibile”, sul fascismo domina un racconto irridente, da “rivoluzione di cartapesta” e Mussolini stesso è visto come un istrione, un tragico pagliaccio, sul quale non c’è necessità di ricerche filosoficamente approfondite”.
Intellettuale, giornalista e politico. Quali i filosofi che determinarono la sua formazione giovanile?
“La primissima influenza fu quella positivista, su cui si innestava ovviamente la tradizione marxista mediata dal padre Alessandro, che però era un attivista, non certo un intellettuale. Oltre a Marx, determinanti nel suo pensiero furono le influenze di Sorel e Stirner. Poi ovviamente Nietzsche e Oriani”.
Il suo fu un socialismo interventista ed eretico. Nell’approdo al fascismo ci furono intellettuali e autori che ne prefigurarono l’orizzonte, oltre lotta di classe e internazionalismo?
“Citerei tre autori provenienti dal socialismo, importanti in senso generale nella storia di quel tornante storico, ma anche nella evoluzione del pensiero di Mussolini: il soreliano Agostino Lanzillo, che nel 1918 pubblicò un testo emblematicamente intitolato La disfatta del socialismo, letto e apprezzato molto da Mussolini; il sindacalista Sergio Panunzio, tra i primi a individuare nel socialismo ufficiale un movimento reazionario e non più al passo con gli eventi e al cui libro Il concetto della guerra giusta, secondo De Felice, Mussolini aveva in qualche modo contribuito; e poi Giuseppe Rensi, amico personale del futuro Duce, fascista per un breve periodo e poi divenuto antifascista, che già nel 1905, su Critica sociale, aveva pubblicato un articolo significativamente intitolato Il socialismo come volontà di potenza”.
Il ruolo degli scritti di Spengler e Nietzsche?
“Mussolini incontra Nietzsche nei primissimi anni del Novecento, già da socialista, e continua ad approfondirne il pensiero per tutta la vita, fino agli ultimi giorni della sua esistenza. È di gran lunga il pensatore per lui più importante. A riguardo, citerei il saggetto La filosofia della forza, che Mussolini scrive nel 1908, in piena fase socialista, ma pubblicandolo sull’organo locale del partito repubblicano, e i suoi rapporti con la sorella del filosofo, Elisabeth, che lo portò a finanziare l’allora nascente Archivio Nietzsche. Quanto a Spengler, Mussolini lo scopre nella seconda metà degli anni ’20, e anche se non lo incontra di persona coltiva con lui rapporti di cordialità a distanza (Spengler gli inviava sistematicamente i suoi libri e lo contrapponeva sovente a Hitler, che invece detestava). Mussolini ne amava l’elogio del cesarismo e una certa idea di razza sottratta agli eccessivi biologismi. Non ne apprezzava, invece, il fatalismo”.
Durante l’esperienza di governo ci fu osmosi con il pensiero filosofico o prevalse il pragmatismo?
“Rispetto alla famosa divisione defeliciana tra fascismo regime e fascismo movimento, direi che Mussolini riassunse entrambe le dimensioni in sé. In questo senso, seppe essere politico pragmatico e appassionato lettore di filosofia contemporaneamente. Nessuna sua scelta politica fu puramente filosofica, come è ovvio, ma allo stesso tempo possiamo dire che nessuna scelta politica fu del tutto esente da una base filosofica”.
Un filosofo, Giovanni Gentile, fu una figura centrale non solo sul piano delle idee ma anche delle riforme del fascismo. Che dialettica aveva con Mussolini?
“Tra i due ci furono rapporti di sincera e reciproca stima, che non si interruppe neanche nei momenti in cui il filosofo fu maggiormente isolato nel regime. Filosoficamente, Mussolini scoprì Gentile tardi, dopo essere stato a lungo influenzato da Croce. Grazie a lui approdò a una compiuta coscienza dei fenomeni dello Stato e della nazione. Gentile, invece, vide in Mussolini il realizzatore delle sue teorie, il politico capace di unire pensiero e azione, cosa che egli predicava ma che, per indole personale, non sapeva poi tradurre in prassi concreta”.
Nel volume approfondisce il rapporto tra Mussolini e la deriva razzista. Con che conclusioni?
“Che una certa preoccupazione razziale era insita e coerente con le sue preoccupazioni di ordine biopolitico maturate nel corso degli anni, ma anche che fu del tutto aliena dal suo orizzonte culturale l’istanza sterminazionista”.
Tra i vari documenti approfonditi nello studio, ci sono testi inediti o riletti con una chiave antitetica rispetto alle precedenti interpretazioni?
“La chiusura degli archivi causa Covid ha purtroppo frenato una parte importante della ricerca, che poteva scoprire documenti inediti, ma credo di poter dire che comunque ci sia un forte elemento di novità nel mio lavoro, anche solo per come certi fatti e certe fonti sono state valorizzati. Ho inoltre avviato un confronto con la più recente storiografia, anche estera, che è molto meno indulgente con il fascismo rispetto a quella della precedente generazione, cercando però di usarne gli argomenti in un senso volutamente decontestualizzato”.
Per concludere, nella filosofia di Mussolini come vengono inquadrate le categorie del Mediterraneo e della visione dell’italianità imperiale, auspicata da poeti armati come Berto Ricci?
“Sono riferimenti che fanno parte del costante tentativo mussoliniano di superamento del nazionalismo in chiave imperiale. Di sicuro, tanto in termini geopolitici che “geofilosofici”, il Mediterraneo era per Mussolini la nostra “sfera di influenza” designata, anche se sappiamo che la sua visione geopolitica proponeva l’approdo alla sponda oceanica, seguendo direttrici che poi saranno comunque centrali nella politica internazionale dei successivi 70 anni. Segno che tanto campate in aria certe visioni non dovettero essere”.
*Mussolini e la filosofia di Adriano Scianca (pp. 416 euro 25, Altaforte edizioni)
Non erano campate in aria le visioni di Mussolini, mentre lo era la nostra capacità di realizzarle. Bisognava lavorare, e bene, sulle alleanze giuste, sui tempi lunghi, non sul “tutto e subito”…
Interessante riflessione questa sulla prospettiva mediterranea.
Mi chiedo allora come come mai sia mancato un comportamento consequenziale nello specifico della condotta della guerra, che ha visto l’esercito italiano sparpagliato, senza una strategia organica, in campagne “fuori sacco” in Francia, Belgio, Russia, Atlantico, Balcani invece di organizzare uno sforzo concentrico nei confini del solo Mare Nostrum.
Per dominare il Mediterraneo occorreva disattivare le basi inglesi di Gibraltar, Malta, Alessandria, Creta, Suez. Se non si poteva con tutte almeno la gran maggioranza. I tedeschi ci riuscirono a caro prezzo con i loro paracadutisti a Creta. Noi non attaccammo mai seriamente neppure Malta…
Appunto.