Di Cioran si è detto tutto: lo si è presentato quale insigne esponente della «giovane generazione» intellettuale che sprovincializzò la cultura romena nella prima metà del Novecento, quale «compagno di strada» dei Guardisti di Corneliu Codreanu, quale incorreggibile pessimista, nichilista, e soprattutto, quale scrittore dalla prosa elegante, tanto nelle opere composte nella lingua nativa, quanto in quelle in cui utilizzò la lingua del paese d’esilio, il francese. La chiarezza stilistica, hanno sostenuto alcuni critici, sarebbe servita a celare la corrosività esistenziale dei suoi libri. Tali giudizi contraddittori fanno comprendere la complessità del personaggio Emil Cioran che, fin dalla giovinezza, ebbe un rapporto conflittuale con se stesso, con la vita ed il proprio tempo, connotato dal dogma del progresso. E’quanto emerge da una recente pubblicazione di scritti del pensatore, Ultimatum all’esistenza. Conversazioni ed interviste (1949-1994), pubblicato dalla casa editrice la Scuola di Pitagora a cura di Antonio Di Gennaro (per ordini: info@scuoladipitagora.it, pp. 475, euro 30,00).
Si tratta di una silloge di interviste e conversazioni, a cui si sommano le lettere che Cioran inviò ai suoi intervistatori. La maggior parte dei testi rappresenta una assoluta novità in Italia, in quanto inediti. Ultimatum all’esistenza è un volume che consente di fare chiarezza, tanto sulla biografia dello scrittore, in particolare sulle sue amicizie intellettuali, quanto sulla sua visione del mondo. Per la ricostruzione delle vicende cioraniane è imperdibile l’intervista rilasciata a Ion Deaconescu. Quale premessa, al fine di avere acconcio accesso all’universo ideale del romeno e comprenderne l’eccezionale eccentricità, può esser utile questa considerazione dell’intervistatore: «i grandi scrittori vivono ad alte temperature interiori, essendo in grado di sacrificare tutto per la loro opera, persino la propria tranquillità e felicità» (p. 404). In questo colloquio, Cioran ricostruisce la storia della propria famiglia, sottolineando l’importanza di avere avuto un padre pope. Si sofferma sull’infanzia a Răşinari, sugli anni del liceo trascorsi a Sibiu, ma soprattutto ricorda le notti insonni, durante le quali ebbe: «la rivelazione dell’inutilità, in una città quasi decadente, poetica ed arida». Nella «piccola Heidelberg» di Romania si dette, anima e corpo, a leggere la filosofia tedesca, di cui si infatuò perdutamente. Avrebbe comunque preferito rimanere nel paesino natale: «Lontano dal mondo, contadino, in una capanna sui monti, vicino al Nulla» (p. 408).
E’ sferzante, Cioran, anche verso se stesso. Riguardo all’esperienza di docenza, così si esprime: «Il professore è […] un Don Chisciotte votato all’obbedienza». Solo nei bordelli, assieme alla prostitute con le quali spesso si intratteneva, tedio ed angoscia, che abitualmente lo accompagnavano, si dissolvevano, almeno nell’attimo estatico dell’amplesso. Non mancano riferimenti all’esperienza legionaria e agli intellettuali che gli furono sodali in tale frangente: Eliade, Vulcănescu, Noica. Si trattò di: «uno stato di euforia delirante che ci ha coinvolti tutti. Un eccesso che ci ha contagiato per fare la storia […] Un’ossessione allora necessaria. Fallimentare poi» (p. 411). Per quanto attiene al filosofo Costantin Noica ricorda, nell’intervista concessa a Georges Walter, che il pensatore, durante il regime comunista, avrebbe sottoscritto un patto tacito con la dittatura: lascatemi fare filosofia senza disturbarmi, avrebbe chiesto, e io non entrerò in esplicita polemica politica con voi. Questa scelta nasceva dalla raffinatezza, non solo culturale dell’uomo, ma psicologica: «Ci sono persone che si sono ribellate, ma senza alcuna efficacia. Era inutile. (Noica) ha finito per rendersene conto. Ha fatto delle concessioni per lui, sul piano intellettuale è stata cosa favorevole per la Romania» (p. 369). Noica, nonostante ciò, scontò sei anni di carcere duro: non fu affatto un traditore della causa nazionale.
Dalle conversazioni emergono i referenti culturali cui Cioran si rivolse: l’iniziale vicinanza a Bergson, l’intensa e partecipata lettura dei testi del buddhismo, di Kierkegarad e di Dostoevskij. Un itinerario speculativo che lo condusse dallo «slancio vitale» alla «tentazione d’esistere», dalla realizzazione, si sarebbe tentati di dire, volontarista, alla tacitazione del desiderio (che in realtà Cioran, lo confessa apertamente, non riuscì a silenziare). Determinante fu l’esilio parigino. Giunse nella capitale d’oltralpe per scrivere una tesi di dottorato che, in realtà, non vide mai la luce. Qui perse interesse per la filosofia, si avvicinò alla poesia. Iniziò a praticare la scrittura aforistica che, meglio di altri generi espressivi, si prestava a dar voce al suo mondo interiore, instabile in qualsiasi dato, in qualsiasi positum, «assoluto» com’era, svincolato, libero da qualsiasi stare. A Parigi, nel 1937, prese la decisione di lasciarsi alle spella la «poetica» lingua romena, per aderire alla chiarezza cartesiana del francese: «Parigi però mi ha catturato nelle reti del fallimento, gettandomi negli abissi della mia inferiorità, conducendomi a uno stato di precarietà che si è rivelato fallimentare» (p. 413), e perciò liberatorio. Nella «città di luce», Cioran divenne uno scettico radicale, capace di mettere in dubbio lo stesso scetticismo: non si lasciò più guidare da nessuno: «nemmeno da Dio» (p. 413).
Come confessa nell’intervista rilasciata ad Ben Ami Fiham, in Francia, egli fece una scoperta tragica. Ebbe contezza che l’Europa era divenuta: « un cimitero […] ho visto che la gente aveva solo un’idea: schivare la responsabilità» (p. 80). Il tramonto dell’Occidente spengleraino si trasformò, allora, in constatazione storico-esistenziale: comprese la modernità come segnata dalla decadenza, età simile agli ultimi giorni dell’Impero romano. Eppure, pur avendo rinunciato ad ogni forma di illusione salvifica, tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo, Cioran non ha mai messo in pratica il suicidio, di cui sovente filosofeggia. L’esercizio scrittorio agì su di lui in modo terapeutico: «Per me scrivere è un ultimatum all’esistenza. Questo è il significato di tutti i miei libri […] Si può sopportare l’esistenza, demolendola» (p. 69). Analizzare il suicidio, possibilità estrema dell’uomo testimoniante, come gli stoici avevano compreso, la libertà, ha allontanato tale atto dalla sua vita. Nella conversazione con Fred Backus, Cioran prende le distanze dalle posizioni di Sarte, ma anche da Heidegger, poiché questi, pur affrontando il tema della morte: «è riuscito a voltare le spalle a tutto e a celare qualsiasi impasse usando le frasi più insolite» (p. 457): il tedesco imbrigliò la morte nei neologismi da lui creati.
Cioran, al contrario, ha fede esclusivamente: «Nella disperazione di ogni giorno. Se non disperassi non vivrei. Mi perfeziono continuamente nell’infelicità» (p. 428). Come gli amati mistici, le cui lacrime, il cui dolore, finivano per condurli alla santità.
* Ultimatum all’esistenza. Conversazioni ed interviste (1949-1994), pubblicato dalla casa editrice la Scuola di Pitagora a cura di Antonio Di Gennaro (per ordini: info@scuoladipitagora.it, pp. 475, euro 30,00)
Ci sono intellettuali e scrittori di riferimento. Cioran mi pare uno di essi. Poi ci sono gli intellettuali-guida, nel bene e nel male. Cioran non lo è, come non lo era un Ceronetti. Non erano ‘maestri di vita’, non orientavano le menti né aspiravano ad esserlo o a farlo…