Ricorre oggi l’80esimo compleanno di un eroe nazionale.
Il numero 19 è per Paolo Borsellino l’alfa e l’omega. Un 19 di gennaio del 1940 nasce a Palermo e un 19 di luglio del 1992 muore a Palermo, fatto saltare in aria assieme alla sua scorta in via D’Amelio. Aveva solo 52 anni ed era un eroe. Si fa presto a dire eroe di chi l’eroismo l’ha solo fiutato o sfiorato o di chi l’eroismo lo veste come una casacca posticcia e prestata per la parata del momento. Paolo Borsellino è un eroe vero. Occorre saperlo e ricordarlo. Senza retorica. A Paolo Borsellino, che con Giovanni Falcone l’altro eroe di quest’Italia troppo incline all’oblio ha combattuto la mafia a mani nude e spalle scoperte, Fabio Granata ha dedicato un libro che è l’appassionato manifesto di un’amicizia e di una fede.
“Meglio un giorno” uscito qualche mese fa nella seconda edizione ha un titolo evocativo e un sottotitolo apodittico. Evoca uno slogan “Meglio un giorno da Borsellino che 100 anni da Ciancimino” che il Fronte della Gioventù dedicò al magistrato appena trucidato per mettere la giusta distanza tra l’eroe e il discusso (è un eufemismo) sindaco di Palermo negli anni del sacco della capoluogo siciliano. Il sottotitolo è “La Destra Antimafia e la bandiera di Paolo Borsellino” a voler stabilire un legame biografico, storico e ideologico tra certa Destra e il magistrato.
Il libro è per detta dell’autore “il racconto sulla nostra Comunità umana e politica” e delinea intrecciandole, con una prosa brillante e chiarissima, due direttive: l’esempio di Paolo Borsellino e la Destra “della diaspora nei confronti del sistema di potere berlusconiano”. Entrambi i temi attraversano la vita stessa di Fabio Granata, politico di lunga esperienza e militanza. Militanza nel senso più forte e scomodo della parola.
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Fabio Granata ricorda Paolo Borsellino
Dopo quasi 30 anni dalla strage di Via d’Amelio, nessuno può oramai permettersi di ricordare Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano, come generiche “vittime di Mafia”.
Alcune disgustose retoriche e alcuni Miti di cartone sono stati finalmente fatti a pezzi dalla cruda concatenazione dei fatti e dall’accertamento testardo e puntuale della verità. E non serve solo “ricordare” ma occorre “capire”.
Avevamo ragione.
Eravamo in pochi e tutti accusati di essere succubi dei magistrati, “giustizialisti e comunisti”.
Eravamo pochi, ma avevamo ragione.
Il mio racconto su Paolo Borsellino e sulla destra antimafia, volutamente riproposto con il testo originario, risentiva inevitabilmente, nella sua prima edizione, del contesto dell’epoca: erano i giorni del mio paradossale deferimento ai Probiviri del Pdl, presieduti da Denis Verdini (sic), per aver osato sostenere all’interno della Commissione Nazionale Antimafia, della quale ero Vice Presidente nonché relatore sulle Stragi di mafia, la piena credibilità di Gaspare Spatuzza sulle tragiche vicende del ‘92. In quei giorni molti esponenti del mondo politico nel quale ero cresciuto e avevo militato fin da giovanissimo, avevano chiesto a gran voce la mia espulsione dal neonato partito unico del centrodestra. Con Spatuzza “toccavo” un nervo scoperto nel Pdl: uomo di fiducia dei Graviano, Spatuzza avrebbe ricondotto le indagini “deviate” dalla Procura di Caltanissetta guidata da Giovanni Tinebra verso i veri responsabili della strage di Via D’Amelio con tutte le gigantesche conseguenze processuali e politiche che ne sarebbero derivate.
Gaspare Spatuzza era infatti legato a quella fazione di Cosa Nostra che negli anni ‘80 era stata protagonista assoluta di una enorme e continua azione di riciclaggio di denaro in Lombardia (ricordate la Banca Rasini?) attraverso personaggi come Cinà, i Graviano e Mangano, lo “stalliere di Arcore” pubblicamente esaltato in ogni sede come eroe da parte di Berlusconi e Marcello Dell’Utri, tra le acclamazioni entusiaste quanto ingenue del popolo del centrodestra.
La mia battaglia solitaria sulla piena credibilità di Spatuzza aveva successivamente avuto piena conferma e riscontro dalle indagini e dai processi. Una trattativa che aveva spianato la strada alla condanna a morte di Paolo Borsellino.
Nei Processi furono assolutamente fondamentali le ricostruzioni minuziose delle torbide vicende disvelate da Gaspare Spatuzza. Ma è la sentenza del 20 aprile 2018 che passerà alla Storia: un fondamentale e definitivo passo in avanti verso quella verità e giustizia sulla morte di Borsellino da noi sempre auspicata.
La sentenza riscrive il finale della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda e condanna per lo stesso reato (violenza o minaccia a corpo politico dello Stato) tanto gli uomini di mafia – Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, unici mafiosi superstiti fra gli imputati dopo la morte di Provenzano e Riina – quanto gli uomini dello Stato ovvero i capi del Ros Subranni, Mori e De Donno oltre all’inventore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. La Corte di Assise di Palermo, dunque, ha finalmente messo nero su bianco quello che in questo libro ho sempre sostenuto relativamente al patto con Cosa nostra.
Un ignobile accordo che battezzò col sangue la Seconda Repubblica sui cadaveri di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, degli uomini e donne delle scorte e dei 10 caduti inermi nelle stragi del 1993 di Firenze, Roma e Milano.
Oggi nessuno può più negare la Trattativa.
Oggi una sentenza storica ribadisce e certifica come la stessa “non si può più definire presunta”. E’ quindi un dato definitivamente accertato che uomini delle istituzioni avvicinarono uomini di Cosa nostra chiedendo “cosa volessero per fermare il ‘muro contro muro’” con lo Stato e bloccare le stragi. Alcuni dei protagonisti certi furono gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno e l’ex sindaco democristiano di Palermo Vito Ciancimino, che insieme a Lima e con la sola opposizione del Msi, aveva devastato la bellezza smagliante di Palermo, seppellendo di cemento lo splendido Liberty e le preziose architetture di una Città che all’inizio del ‘900 rivaleggiava con Capitali europee come Parigi per armonia urbana e vivacità culturale. Quella miserabile e oscura interlocuzione, voluta e ricercata dallo Stato, portò Cosa Nostra al pieno convincimento che le bombe pagassero, a iniziare da quella terribile fatta esplodere sotto l’abitazione della madre di Paolo Borsellino in Via D’Amelio, con il ruolo attivo di Gaspare Spatuzza su ordine di Riina e dei Graviano e la super visione dei Servizi segreti.
Proprio perché Borsellino era l’ultimo ostacolo verso la chiusura del nuovo Patto tra mafia e nuovo potere politico. Prima e dopo Via D’Amelio si giocò una partita torbida, caratterizzata da un groviglio oggi sempre più chiaro di omertà e interessi criminali e politici: gli stessi interessi sull’altare dei quali fu “sacrificato” Paolo Borsellino.
Tra i tanti pezzi dell’infame puzzle della Trattativa purtroppo ritroviamo non solo la sottrazione dell’agenda rossa, divenuta il simbolo di una verità fatta scomparire per mano dello Stato attraverso chi sopraggiunse in Via D’Amelio subito dopo la strage, ma anche la sparizione di tutti i documenti dall’abitazione di Toto Riina, dopo la sua “cattura”.
I Ros per iniziativa di Mario Mori e Antonio Subranni, bloccarono la perquisizione del covo e l’allora capo della Procura Giancarlo Caselli, appena arrivato in città e privo di adeguata conoscenza del “contesto” si adeguo’ in buona fede, fidandosi dell’Arma. Il risultato fu che il Covo restò senza vigilanza e fu ripulito scientificamente: sparirono tutti i documenti in quella casa che fu abitata a lungo da Riina: fotografie, documenti, oggetti, appunti. Probabilmente la stessa Agenda Rossa.
Altre fonti fondamentali di prova vennero a mancare con la morte di Luigi Ilardo (capo mafia di Caltanissetta) e la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il cui covo era stato indicato al Colonnello dei Carabinieri Michele Riccio. Ilardo la sera prima di ufficializzare la sua posizione da testimone di giustizia venne assassinato e nessuno fece mai irruzione nel Covo da lui indicato, dove Bernardo Provenzano venne catturato solo 5 anni dopo nello stesso covo. Ilardo avrebbe certamente voluto svelare chi agiva insieme a Cosa Nostra e aveva già fatto delle anticipazioni sui nuovi referenti politici di Cosa Nostra agli albori della seconda Repubblica. Aveva parlato anche di Matteo Messina Denaro che, insieme ai Graviano e oramai pochissimi altri, sono a conoscenza delle causali vere che stanno dietro lo stragismo del 1992-1993. Causali che invece sono rimaste ignote ad altri capi di cosa nostra, ai quali furono comunicate solo le casuali interne: il desiderio di vendicarsi di Falcone e Borsellino e punire i politici che non avevano mantenuto le promesse di far annullare il maxi processo”. Riina, il capo della cupola di Cosa Nostra, non raccontò mai perché decide di anticipare l’esecuzione di Paolo Borsellino, per “mantenere impegni presi”. Ma con chi? I Graviano lo sanno bene ma, al di là di alcuni “segnali” non parlano ancora che alcune verità riguardano centri di potere poiché ritengono di essere ancora indifesi verso gli stessi: quelli che ordinarono la morte di Paolo Borsellino.
Da quei fatti si determino’ un radicale ostracismo politico verso chi, “da destra”, aveva capito.
Oggi sarebbe bellissimo se la mia storica Comunità politica, anziché “tirare la giacca” alla antica e mai rinnegata appartenenza politica del Giudice Borsellino, si caricasse finalmente sulle spalle un giuramento antico e non negoziabile: pretendere verità e giustizia su chi volle la sua morte.
Per poter finalmente svelare agli italiani e ai familiari del grande Magistrato perché Paolo Borsellino fu mandato a morire.
Io ho combattuto la buona battaglia nel nome di Paolo Borsellino e a quella sono rimasto fedele, contro chi “aveva per sempre perso il diritto di parola”. Questo libro e’ un tassello di Memoria, ma soprattutto di consapevolezza su ciò che avvenne tra tutti quelli che hanno creduto e credono in una “certa Idea dell’Italia” e che, solo così, potranno rialzare al Sole, con coerenza, la Bella bandiera di Paolo Borsellino.