Una sottomissione tendenzialmente inflessibile al proprio signore/superiore, tipicamente giapponese, risulta abbastanza “eccentrica” nell’ethos di Occidente; in altri termini, nelle lande del sol calante l’obbedienza al comando ha usualmente ritenuto, in chi la deve esercitare, un contenuto etico. L’ordine non è, di per sé, assoluto: se da un lato un tale “limite” caratterizza in senso morale, per l’appunto, l’agire umano, dall’altro ciò rischia di aprire una qualche fessura alla possibilità di un arbitrio “liberale”.
Il soldato giapponese Hiroo Onoda
Il più fulgido esempio di rispetto delle consegne che la storia recente ha restituito è, a nostra conoscenza, quello di Hiroo Onoda (1922-2014), di cui è stato pubblicato, nel 2014, uno splendido libro, intitolato Dietro le linee. Io, solo, per trent’anni in guerra (Edizioni di Ar).
Già ufficiale dei servizi di informazione dell’esercito imperiale giapponese, per 29 anni (sette mesi prima di Teruo Nakamura, l’ultimo “soldato fantasma” giapponese) egli visse nell’isola filippina di Lubang, dove era stato inviato per ostacolare l’avanzata nemica. Onoda rimase solo, per la diserzione di un camerata e l’uccisione di altri due: ma non cedette, e la sua volontà divenne, nel corso di un lungo e perigliosissimo apprendistato ascetico, forma. Non si curò, con quella che agli occhi degli smaliziati occidentali (o, peggio, occidentalizzati) appare una naïveté talmente inattuale da sembrare imperdonabile, di nessuno dei messaggi che gli furono lanciati nella giungla ove si manteneva senza posa “dietro le linee”. Nel 1974, il diretto superiore di Onoda, il maggiore Taniguchi, si recò sull’isola, convincendolo ad arrendersi, con l’assicurazione che la guerra era da tempo finita: ed il Giappone aveva, incredibile dictu, perduto. Molti soldati nipponici erano morti di crepacuore alla notizia; per Onoda, nelle sue parole, “era la fine”.
Ma Hiroo fu, oltre che un eccelso monaco-guerriero, un uomo: provava dei sentimenti profondi, che non travalicavano però la ragione e l’ethos radicatissimo del dovere; un senso del cameratismo che commuove ne definisce mirabilmente l’”equazione personale”. “La cosa più dura è stata l’aver perso i miei camerati”, afferma. Sulla lapide del camerata Kozuka, l’immarcescibile milite nipponico canta al chiaro di luna un antico motivo militare: “Fedele ai cinque insegnamenti, sul campo di battaglia il prode muore. Una cosa soltanto trova certa: anche se neppure un capello di lui resta, nessuno può dolersi di essere morto per l’onore”.
Quel che resta del giorno
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Noi abbiamo ritenuto di rinvenire un esempio occidentale (britannico!) di dedizione inflessibile al proprio superiore, comparabile a quella di Onoda, per una certa omologia che accomuna la “ascetica” costituzione interna — nel senso del dominio sovrano delle proprie passioni — di Onoda e quella del protagonista del film “The Remains of the Day” (J. Ivory, 1993, con H. Pinter sceneggiatore non accreditato; il film è tratto da un romanzo scritto (pubblicato da Einaudi), forse non a caso, da un autore giapponese, K. Ishiguro, e la stessa ambientazione temporale è quasi coeva all’inizio della vicenda di Onoda), Mr Stevens (personaggio fittizio, a differenza dell’ufficiale nipponico, ma “verosimile” e quindi tipo ben definito). Egli, maggiordomo di Darlington Hall magistralmente interpretato da A. Hopkins, serve con rigore assoluto Lord Darlington, non risultando esteriormente scosso neppure dal decesso del padre — anch’egli al servizio di Darlington –, che avviene durante un importante ricevimento. Il genitore muore in solitudine, proprio mentre il figlio dirige in modo impeccabile l’organizzazione del convivio “politico”: avvisato, non accorre al capezzale del padre, per non interrompere il servizio di Lord Darlington, che sta tentando (altro ingenuo!) di ricomporre le frizioni tra la Gran Bretagna e la Germania (siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale). Il dovere di stato precede i sentimenti e le passioni: i legami privati quasi scompaiono – le emozioni a questi connesse si notano appena, impercettibilmente — dinanzi all’interesse ed ai doveri “pubblici”. Interrogato da un giornalista sulle posizioni politiche del padrone, Mr Stevens afferma, con rigoroso sentimento della gerarchia, di non avere facoltà di giudicare chi gli è superiore.
L’eroismo gerarchico
L’eroismo del servizio, gerarchicamente ordinato, costituisce un minuzioso, continuo esercizio di affinamento della volontà, una ascesi attiva e passiva al tempo stesso, che si basa su di una fede inflessibile: nel caso di Mr Stevens, nel padrone (da autentico samurai di Occidente!); nel caso di Onoda, nell’impero e nell’imperatore. Questa fede è supportata dallo sforzo quotidiano di aderire alla propria vocazione, al proprio destino. Solo i grandi uomini, è ovvio, possono riconoscere questo come tale: e precisamente in ciò consiste l’eroismo, ossia nella fedeltà incrollabile al proprio “dovere di stato”: significativamente, è eroe chi, semplicemente, compie il proprio dovere. Un tale esempio non costituisce semplicemente un momento (o anche una serie di momenti) di grandezza “titanica” o “sovrumana”, ma è rappresentato da una intera esistenza votata al sacrificio per un’idea: un eroismo centellinato in ogni atto quotidiano, straordinario nella sua ordinarietà (teniamo a precisare che un padre di famiglia che cura con amore indefesso i propri figli e la propria consorte, giorno dopo giorno, non può essere considerato da meno di Onoda e di Mr Stevens). In ultima analisi, si tratta di una vita che diventa rito poiché, tendenzialmente, non ritiene più nulla di “individuale”.
Elogio dell’integrità
Di quando in quando, un lampo di rettitudine adamantina, sommamente inattuale, fende, a Oriente ed a Occidente, l’oscurità quasi impenetrabile di cieli caliginosi: rammentandoci cosa significa essere uomini, in tempi in cui migliaia di monadi dalle sembianze umane fanno file di ore per bere un cappuccino mondialista (in Italia!) che costa quattro euro – e quindi per farsi colonizzare, insieme all’anima, finanche il palato -, o in cui dalle cattedre più elevate si odono inqualificabili sproloqui senza capo né coda (e, quando si dovrebbe parlare, o rispondere a precise accuse, eloquentemente si tace).
Donando a Onoda una spada di samurai di famiglia, “nel porgermela, mia madre mi disse in tono grave: ‘Se ti fanno prigioniero, usala per ucciderti’”: ciò che risulta fatalmente inintelligibile, oramai, a noi occidentali. Una madre che ingiunge al figlio, a determinate condizioni (il disonore della prigionia), di darsi la morte. L’uomo giapponese “tradizionale” ama la vita, ma non teme la morte: ama la vita perché non teme la morte, che ne è parte e culmine; noi occidentali, spesso, abbiamo in orrore l’una e l’altra, e quindi ci crogioliamo, avvinghiati e quasi compiaciuti, nelle trappole immaginifiche del non senso. “Con l’integrità è possibile sopportare tutte le avversità e alla fine farne strumenti di vittoria”, afferma nelle sue memorie Onoda. Egli è testimone (martire!) attendibilissimo: perché quello che ha scritto, aveva già messo in atto, per ben tre decadi. Alla fine, anche Hiroo si è arreso: ha dovuto, per preciso ordine del superiore. E tuttavia, questa resa, paradossalmente, rimanda alla autentica vittoria: egli aveva vinto la “sua” guerra. Se il Giappone fu sconfitto nel conflitto “esteriore”, Onoda – come tutti coloro che, senza troppo sperare né disperare, perseverano: anche, se non soprattutto, nelle piccole cose — ha certamente, dopo asperrima lotta, trionfato nella “grande guerra santa”: quella che ogni uomo che sia degno di essere ritenuto tale combatte diuturnamente nel proprio cuore, contro se stesso.
Interessante ancorché “eretica” trasposizione americana dello spirito di dedizione del bushido troviamo nel film Ghost Dog, (Il Codice del Samurai, in Italia) del 1999, di Jim Jarmusch e con un grande Forest Whitaker.