Da più parti mi è stato chiesto un parere sulla puntata di Report di lunedì sera, preceduta dall’annuncio molto ben reclamizzato di notizie clamorose sulla strage di Bologna. Notizie che come al solito andrebbero a dimostrare un attentato pianificato sin dall’anno precedente, in esecuzione di una complessa trama ordita da eversione nera, loggia P2 e poteri occulti d’immancabile osservanza statunitense. Quello che penso sull’esplosione del 2 agosto 1980 l’ho scritto in due libri e in un lungo saggio pubblicato sulla rivista Nova Historica. Inutile ripetermi in questa sede. Ritengo però superfluo soffermarsi sull’ennesimo servizio televisivo a senso unico e senza alcuna possibilità di replica. Il problema è di ordine generale, di natura essenzialmente politica, e per capirlo basterebbe soffermarsi sui fatti di Acca Larenzia, ormai prossimi alla quarantatreesima ricorrenza. Una mattina afosa di circa nove anni or sono presenziai a una noiosissima udienza (presso la sezione civile del Tribunale di Roma, per fatti di assai più modesta rilevanza e per fortuna non violenti) relativa a un procedimento esteso a numerose parti. Una di queste, con interesse convergente a quello della società che difendevo, era assistita da uno stimato collega con marcate idee di sinistra. Avvocato con più anni di esperienza del sottoscritto nonché persona munita di un apprezzabile spirito libertario. I nostri sguardi s’incrociarono durante l’audizione di un testimone non particolarmente convincente. A udienza finita, davanti al caffè, il collega, che ben conosceva le mie ricerche sulla strage di Bologna, fece una battuta non compresa dalle altre due persone presenti. Hai visto quanti piccoli Sparti girano in tribunale? Con la capacità di sintesi tipica di chi è intelligente, il collega enunciò poi i motivi che lo spingevano a non credere alla ricostruzione giudiziaria dell’esplosione del 2 agosto 1980. Aggiunse che tale convincimento era molto diffuso a Roma, anche tra legali della sinistra libertaria, ma fortemente osteggiato a Bologna, come aveva potuto constatare di persona. Purtroppo, mi disse, il tuo libro (quello del 2007) è stato pubblicato da una casa editrice sfigata e in Emilia non lo leggerà mai nessuno. Io condivisi il giudizio sulla casa editrice sfigata (ero proprietario di una parte delle quote sociali) ma non quello sul libro da far leggere ad amici e meno amici bolognesi.
Quello sui fatti di Acca Larenzia (il primo è stato pubblicato nel 2010) lo avrei consigliato vivamente a tutti i cittadini bolognesi convinti che i Nar sono stati il braccio armato di massonerie deviate e poteri occulti in salsa atlantista. A mio avviso, sussiste un motivo molto preciso per cui a Roma il fronte critico della ricostruzione giudiziaria della strage di Bologna si dimostra da tempo molto più ampio e trasversale che nel capoluogo emiliano. Città quest’ultima dove la situazione ambientale resta abbastanza simile a quella del passato. La capitale è colma di lapidi dedicate alla memoria di ragazzi assassinati negli anni di piombo. Ragazzi di destra e di sinistra, vittime di una stagione di violenza che nella nostra città, a differenza di altre, è stata caratterizzata anche dalla rovinosa logica degli opposti estremismi. Se la forza d’urto dell’estrema sinistra divenne impressionante, per numeri e in determinati casi per capacità organizzativa, l’estrema destra poteva contare su una base attivistica consistente (impensabile in altre città) e addirittura egemone in alcuni quartieri. A causa di tale peculiarità, a Roma gli anni di piombo rappresentarono anche una prosecuzione della guerra civile combattuta tra rossi e neri nel 1943-45. I Nar non nacquero nel laboratorio dei complotti di Castiglion Fibocchi, come conviene far credere ancora oggi. Furono invece figli naturali e interpreti spietati di quella lunga stagione di violenza di segno opposto che negli anni settanta insanguinò le strade della capitale. L’alternativa non è priva di rilevanza. Convincere l’opinione pubblica della veridicità della prima opzione produce effetti ben precisi. Il bagno di sangue degli anni settanta, di cui lo stragismo fu l’espressione più spaventosa, diventa per incanto tutta colpa degli “altri” che ordirono in danno d’innocue verginelle democratiche trame occulte e complotti infiniti. Gli “altri” sono ovviamente fascisti, massoni, reazionari governativi, americani e via dicendo. Accettare la seconda opzione significa invece chiamare tutti, nessuno escluso, a fare i conti con le proprie responsabilità. Personali, istituzionali, professionali, di partito. Sgombriamo il campo dagli equivoci. Chi uccide è un assassino. Lo è ontologicamente. Tale principio vale per tutti. Neri e rossi. La morte non è un fatto terribile solo quando riguarda i propri caduti.
La storia delle vittime che pesano piombo o piuma a seconda dei casi appartiene a una parrocchia che non è la mia. Per questi motivi nei miei libri sui fatti di Acca Larenzia i ragazzi di sinistra assassinati nelle strade di Roma sono stati ricordati uno a uno, senza addolcire una pillola molto amara, a fianco dei loro coetanei Franco Bigonzetti e Francesco “Franco” Ciavatta. Walter Rossi (caduto ancora prima degli omicidi del Tuscolano). Roberto Scialabba. Ivo Zini. Non solo. Sono stati onorati anche i ragazzi ammazzati e oggi dimenticati da tutti. Figli del popolo colpevoli d’indossare una divisa. Da Antonio Marino (ucciso a Milano dai neri) a Settimio Passamonti (ucciso dai rossi). Detesto chi ha occhi per vedere solo la parte politicamente più utile di questa lunga scia di morte. E purtroppo sono tanti, collocati spesso in ruoli molto più determinanti del mio. Ma è troppo comodo liquidare la carneficina degli anni di piombo puntando l’indice solo su chi le mani se le sporcò di prima persona. Comodo, vile e drammaticamente ingiusto. Mai in questa nazione disastrata si è portato avanti un tentativo di lettura autocritica onesto e di portata generale. Una elaborazione sincera di un passato terribile. Perché le responsabilità, di grado e tipo diverso, ne sono ravvisabili molte e assai ben distribuite. A partire da quelle ascrivibili ai partiti scaturiti dalla fazioni estreme ed opposte di quella guerra civile caduta in letargo nel 1945. Incapaci di proseguire la funzione di diga rappresentata per almeno due decenni. Meglio propinare complottismo a buon mercato che ricordare come molti militanti delle “sedicenti brigate rosse” siano nati e cresciuti nelle sezioni del Pci. Che la via della lotta armata l’hanno intrapresa in nome del comunismo e non dei dollari della Cia. Che il Pci per anni da una parte raccontò all’opinione pubblica la storia delle brigate rosse che erano nere, dall’altra offriva in silenzio, mediante magistrati amici, ai giovani terroristi usciti dalle proprie sezioni, conosciuti uno a uno, benevolenza giudiziaria in cambio di un proficuo ripensamento. E che la musica per i terroristi cambiò solo quando tale partito iniziò a mobilitarsi contro questi “sedicenti”. Ma ce n’è anche per il Msi che continuò a proporre la linea d’ordine anche quando i carabinieri sparavano addosso ai suoi giovani disarmati nei dintorni della sede di via Acca Larenzia. Che liquidò come agenti provocatori i militanti della lotta armata neofascista, responsabili di gravi reati e numerosi omicidi, cresciuti dentro le proprie sezioni. E ce n’è anche per la Dc e per gli altri partiti di governo, consapevoli della rendita politica garantita dagli opposti estremismi. Lesti a chiedere la punizione dei giovani violenti ma disposti a chiudere un occhio quando una pistola mitragliatrice Skorpion svaniva nel nulla. Chi conosce le mie ricerche sa cosa penso degli anni di piombo. Che esistono chiavi di lettura più impegnative, talvolta sovrapponibili a quelle che appaiono a occhio nudo. L’ambito delle ingerenze, interne e straniere. Di paesi più forti, ubicati da entrambi i lati del muro di Berlino. La guerra surrogata mai raccontata sino in fondo. Gli effetti prodotti dai gradi di autonomia ricercati dall’Italia all’interno del blocco occidentale nel periodo della distensione internazionale. Le tensioni della guerra fredda riversate nell’area mediorientale e del Nord Africa. I disastri prodotti dalla diplomazia parallela tessuta dai nostri esecutivi nello scacchiere mediterraneo attraverso gli uomini dei servizi di sicurezza, puntualmente presenti poi nelle varie attività d’inquinamento delle indagini sui fatti più gravi della storia italiana. I segreti di Stato e le scaltrezze levantine nella gestione dei gradi inferiori della secretazione. Ma bisogna avere il coraggio di ammettere che l’odio riversato nelle strade di Roma fu autentico, figlio legittimo delle rispettive ideologie. Farine dei nostri sacchi, rossi e neri. Non ci sono buoni e cattivi. Non serve neppure difendersi cercando di dimostrare che però hanno iniziato gli “altri”. Le differenze piuttosto vi furono nelle rispettive forze messe in campo, numericamente sbilanciate dalla parte dei rossi (Ciavatta a scuola veniva umiliato e usato come ariete umano perchè litigare uno contro cinquanta non è semplice). Nel processo di militarizzazione che a Roma l’estrema sinistra avviò con un paio di anni di anticipo rispetto all’estrema destra. Nella maggiore capacità organizzativa dimostrata nel complesso dai “compagni”, cui corrispose una superiore attitudine militare dei singoli tra i “camerati”. Alla diversa sensibilità politica ma soprattutto mediatica che accompagnava le rispettive e opposte violenze. E qui ci avviciniamo al punto. I professionisti del complotto monocolore, quelli più anziani, sono troppo spesso quelli che, dopo il rogo di Primavalle, presero le difese dei militanti di Potere Operaio (dissidenti immaginari) avallando la storia infame ma politicamente redditizia e autoassolutoria della faida nera. Dell’incendio a porte chiuse. Attraverso una campagna di disinformazione che vide, al fianco di futuri terroristi, nomi assai rispettabili e ancora oggi convinti di poter fornire a noi poveracci senza aiuto televisivo lezioni di morale. Andateveli a rileggere questi nomi e capirete dove voglio arrivare. Copione ribadito due anni dopo, con l’omicidio di Mikis Mantakas ma soprattutto di quello di Mario Zicchieri, un ragazzino di sedici anni così cattivo da essere chiamato “cremino” dagli amici. L’odio ideologico costato la vita a questi ragazzi non arriva da Marte, è figlio legittimo della storia italiana del ventesimo secolo. Lo stesso identico odio, di segno opposto, sparato nei proiettili che uccisero giovani innocenti come Rossi, Scialabba e Zini. Odio autentico che la sera del 7 gennaio 1978 si respirò su ogni angolo delle strade a ridosso della sezione missina di via Acca Larenzia. Quello di Franco Anselmi, il ragazzo diventato quasi cieco per le botte ricevute dagli avversari rimasti impuniti. Quello che intinge il passamontagna sul lago di sangue lasciato dal cadavere di Bigonzetti. Quello che promette vendetta, che va ad assassinare l’innocuo Scialabba prima di morire a sua volta durante una rapina dei Nar presso un’armeria. Strana, pericolosa e incomprensibile impresa per una organizzazione terroristica che dovrebbe essere ricoperta di dollari da massoni, cospiratori e servizi segreti americani (guidati dall’opposizione ovviamente, visto che dal 1977 al 1980 a Washington comandano i democratici). Di un gruppo di giovani cresciuti in un clima quotidiano di violenza impunita, inferta ma molto spesso subita, che nei giorni successivi all’omicidio di Stefano Recchioni riversa centinaia di pallottole contro poliziotti, carabinieri e rappresentanti di quel regime di cui lo si vorrebbe a tutti i costi un braccio occulto. Giovani che il grembiule non lo mettevano neppure in quinta elementare. Ragazzi che neppure sapevano chi fosse quell’autentico miserabile di Licio Gelli. E a cui, conoscendo i suoi passaggi di campo e i suoi vari attestati di benemerenza, avrebbero riservato volentieri una discreta porzione del loro odio armato. Ma di tutto questo all’opinione pubblica è meglio non parlare. Meglio sorvolare anche su quello che accadde nel carcere di Paliano, pietra tombale delle inchieste sugli omicidi politici avvenuti nella capitale e fabbrica dei depistaggi proprio della inchiesta sulla strage di Bologna. Meglio che non si sappia troppo in giro che Giuseppe Antonio Ciavatta, per il dolore di aver perso il suo unico figlio, si tolse la vita bevendo un flacone di acido muriatico. Che l’azione armata dei Nar a Radio Città Futura, che portò al ferimento molto grave di alcune ragazze di sinistra, fu innescata da un conduttore che ironizzò proprio sul cognome di Francesco “Franco”. No, in Italia tutto questo non è possibile. Rischieremo di diventare una nazione migliore imparando dagli errori e dagli orrori del nostro passato. Meglio continuare a raccontare all’opinione pubblica trame e complotti, disegni autoritari, sempre rigorosamente orditi dagli “altri” in danno dei “nostri”. Meglio tranquillizzare chi comincia a nutrire dubbi su una ricostruzione giudiziaria, incerta ormai anche sul numero delle vittime, riproponendo la storia dei Nar coperti di dollari per ammazzare a casaccio in una stazione ferroviaria donne, bambini e gente di tutte le opinioni politiche. Stragisti prezzolati talmente ricchi che Luigi Ciavardini nei giorni precedenti all’arresto condusse una latitanza così dorata da dormire come un barbone all’aperto. Che Valerio Giuseppe Fioravanti si fece catturare dalle forze dell’ordine per recuperare qualche arma nascosta su un fiume. Che Francesca Mambro finì in carcere mentre tentava una rapina di autofinanziamento. La mia opinione conta molto poco ma ero, sono e resterò convinto che tutto ciò sia profondamente ingiusto. Per tutti. Lo dico conoscendo di persona la sofferenza di molti, moltissimi familiari di vittime del terrorismo. Di varia e talvolta opposta estrazione politica. Non ho mai fatto mistero della mia formazione reazionaria. E credo tuttora, perdonatemi, che un uomo non abbia mai il diritto di piangere. Quando è accaduto ho provato un senso vergogna dentro di me. Mentre ero alle prese con una delle mie ricerche negli archivi del tribunale, trovai la lettera che Giuseppe Antonio Ciavatta inviò ai magistrati incaricati d’individuare e punire gli assassini del figlio. Una lettera scritta con dignità ma soprattutto con ossequio, da un cittadino ingenuamente convinto pur nel dolore estremo che il figlio avrebbe avuto giustizia dallo stato. Ho iniziato a piangere. Non riuscivo a fermarmi. Ogni volta che entro in tribunale ci ripenso. Non conosco il fratello di Bigonzetti. So che della militanza politica di Franco sapeva ben poco. Un giorno lessi una sua intervista. Spiegò di non essere mai andato alle cerimonie ufficiali delle vittime del terrorismo. Non gli interessavano le medaglie perché allo stato della morte del fratello non è mai interessato nulla. In due righe disse molto più di quello che ho cercato di spiegare io in quattro libri. So bene che conto quanto il due di picche, forse meno. E che un post su facebook rappresenta un patetico nulla rispetto a una trasmissione televisiva che irradia la sua verità senza contraddittorio a milioni di persone. Ma state pur sicuri che non gliela darò mai vinta. Non gliela daremo mai vinta.