Se il destino di tutto ciò che è alla moda è di passare di moda, la sorte dei cosiddetti istant book è di finire nel dimenticatoio, una volta venute meno le motivazioni per cui sono stati pubblicati. E all’apparenza questo Vodka-Cola, scritto più di quarant’anni fa da Charles Levinson, singolare figura di sindacalista canadese con la vocazione del giornalista e dello studioso, ha tutti i requisiti per incappare in questo destino. L’Unione Sovietica, con cui secondo l’autore i grandi gruppi capitalistici sarebbero stati collusi, non esiste da quasi sei lustri. Molti protagonisti e comprimari delle trame denunciate in questo libro non abitano più questo mondo, come del resto lo stesso Levinson, o sono comunque usciti dal palcoscenico della storia. Anzi, a leggere molti passaggi del volume, è difficile sottrarsi a un sottile effetto nostalgia, che c’induce a sottoporre i politici, i plutocrati, le “teste d’uovo” di oggi a un impietoso confronto con i Nixon e gli Andreotti, gli Agnelli e i Rockfeller, i Kissinger e i Brzezinski, personaggi discutibili ma senz’altro di un ben diverso spessore. Levinson, che scriveva negli anni Settanta, non poteva prevedere la capacità di sparigliare le carte che avrebbe avuto la presidenza Reagan, ma soprattutto l’opera di un pontefice venuto dall’Est a porre fine anche alla rassegnata e complice Ostpolitik vaticana.
Eppure c’è qualcosa che rende opportuna e in certo qual modo necessaria la riedizione di questo pamphlet, che alla sua apparizione fu accolto da un successo internazionale e che la Vallecchi tradusse prontamente nel 1978: lo stesso anno in cui l’editore Armando pubblicava Il capitalista nudo di Cleon W. Skousen, personalità politicamente molto lontana da Levinson, ma concorde con lui nel denunciare le collusioni fra alta finanza e comunismo.
Il primo motivo è che Vodka-Cola, a dispetto del titolo ad effetto, non è il solito istant book. È un corposo volume di più di trecento pagine, frutto di un lungo e infaticabile lavoro di documentazione, compiuto dal Levinson nella sua veste di sindacalista – fu segretario generale della Federazione internazionale dei sindacati dei lavoratori chimici – e di collaboratore di autorevoli testate.
Il secondo motivo è l’esistenza di una sottile analogia fra quanti, anche nel mondo imprenditoriale, consideravano negli anni Settanta del secolo scorso inevitabile il trionfo finale del comunismo e di conseguenza facevano accordi con l’Urss, e quanti oggi ritengono fatale l’islamizzazione dell’Europa, regolandosi di conseguenza. I “vodkacolisti” di mezzo secolo fa hanno avuto torto; c’è da sperare che la storia non dia ragione a chi è rassegnato all’avvento di quella che Oriana Fallaci chiamava l’Eurabia, e magari spera di trarne profitto.
Il terzo motivo, di non minore rilievo, è che se uno dei duellanti della guerra fredda è venuto meno, l’altro è più vegeto che mai, anzi. Non più obbligato dalla concorrenza con il blocco sovietico a mostrare il meglio di sé, o almeno il meno peggio, il sistema capitalistico ha inasprito lo sfruttamento dei lavoratori, come dimostra la crisi del Welfare, la diminuzione del potere d’acquisto dei salari, la precarizzazione dei contratti, il crescente divario fra compensi dei manager e salari della massa operaia o impiegatizia, la spregiudicatezza del sistema bancario. Le multinazionali, contro il cui strapotere Levinson si batté per tutta la vita, come sindacalista e come ricercatore, sono più forti di prima, la Commissione Trilaterale esiste ancora e gode di ottima salute, il primato dell’economia sulla politica è divenuto addirittura sfacciato. La collusione fra grandi gruppi capitalistici e regimi comunisti non è venuta meno con la caduta dell’Urss, anzi è divenuta organica con l’ingresso nel Wto della Cina Popolare, col suo sistema che ha raggiunto l’obiettivo di realizzare un connubio fra i difetti del turbo-capitalismo e gli orrori del socialismo reale, con tanto di campi di lavoro forzato per i dissidenti.
Molte collusioni denunciate da Levinson fanno venire i brividi ancora oggi. Basti pensare alla finanza vaticana che faceva affari con l’Ungheria comunista, mentre il santo cardinal Jozsef Mindszenty, fiero oppositore del regime e animatore della rivolta del ’56, viveva da recluso nell’Ambasciata statunitense (e, quando fu liberato, non fu reintegrato come Primate della Chiesa magiara, anzi fu costretto al silenzio: non doveva disturbare le manovre dei vari Casaroli). Altre delle trame descritte e denunciate da Levinson – come, nel caso italiano, il sopravvalutato “golpe bianco” di Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi – dovrebbero essere invece valutate con prudenza, alla luce degli sviluppi successivi. È del resto destino comune di tutti gli assertori della concezione cospiratoria della storia, dall’abate Barruel in poi, presentare come complotti quelli che sono inevitabili incontri e accordi fra politici, finanzieri e intellettuali più o meno organici. A pensarci bene, il vero problema non è che i rappresentanti dei maggiori gruppi capitalistici si incontrino in maniera più o meno riservata, in ambienti più o meno ovattati, sorseggiando vodka o champagne: nessuno potrebbe impedirglielo. Il vero problema è il fatto che, anche e soprattutto in una nazione come l’Italia, non esista una classe politica culturalmente e moralmente adeguata, in grado di imporre il primato del “politico” sull’“economico”.
Sotto questo profilo è più che mai attuale quanto Levinson denuncia in questo pamphlet, e quanto ancora prima lamentava in un articolo del maggio 1973 uscito su “Le Monde Diplomatique”: “Nella maggior parte dei Paesi, l’avvenire dei lavoratori e il destino delle loro famiglie tendono sempre di più a essere subordinati a decisioni su cui i loro governi non hanno alcun controllo.” Questa affermazione non basta certo a fare di Levinson un precursore dei moderni sovranismi: da buon sindacalista, egli avrebbe voluto in primo luogo che le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori collaborassero a livello internazionale per contrastare le mosse delle multinazionali. Resta il fatto che, mancando tale collaborazione, la tutela dei diritti dei lavoratori non può fare a meno del rafforzamento della sovranità. Non è certo un caso se il declino dello Stato sociale procede di pari passo con l’eclissi dello Stato nazionale. Solo uno Stato forte, non privo di uno spessore etico, se la parola non allarma troppo, può essere in grado di opporsi a quello che è stato definito il contro-potere delle multinazionali.
Per questo un libro come Vodka-Cola merita un’attenta rilettura, anche se il tè verde o gli involtini primavera hanno preso il posto della vodka. Le ceneri di Charles Levinson, morto a Ginevra nel 1997, riposano nel cimitero ebraico di Veyrer, al confine franco-svizzero. Gli interrogativi che ha posto anche in questo libro sono destinati a sopravvivergli, e non conoscono frontiere.
*Vodka-Cola, la finta guerra fredda di Charles Levinson (pp. 336, euro 24, Iduna)