Il titolo ricorda un testo di Julius Evola, fosse anche solo per coincidenza junghiana. A cavallo della tigre un film multistrato, a più facce, oltre le epoche. Ha una nascita ed una crescita abbastanza anonima, tendente al dimenticatoio. Un film in due versioni. La prima, negli anni sessanta, è una commedia di Luigi Comencini, che ha fatto parte del pacchetto di film italiani inscrivibili nel comparto della commedia all’italiana. Ha subito un remake, circa vent’anni fa, per la regia di Carlo Mazzacurati. Una rapsodia della disperazione che trova il centro in un esempio di trama di un romanzo corale.
Il plot è semplice: un infermiere interpretato da Nino Manfredi è sul lastrico e finisce in carcere per simulazione di reato. Lì incontra Tagliabue, interpretato da un Mario Adorf al culmine del figurativo, che lo trascina più a fondo di quanto già non sia.
Era il 1961, scritto da Comencini con Age &Scarpelli, autori di capolavori come La Grande Guerra di Monicelli, Sedotta e abbandonata di Germi e C’eravamo tanto amati di Scola, giusto per citarne tre. Il produttore è Alfredo Bini, celebre per aver creduto in Pier Paolo Pasolini tanto da produrlo.
Il leit-motiv è quello dell’incastro tra vite che si trovano sullo stesso bordo, in bilico tra la disperazione e la spinta per rinascere. Una commedia frutto di quegli anni, picaresca, in cui il volto di Manfredi si incastra e rimane sullo schermo insieme quello di Adorf, contrassegno di figure complesse, il cui tratto sembra derivare da un fumetto di Will Eisner.
Nel 2002 Carlo Mazzacurati ne gira il remake. Lo scenario cambia: non più un infermiere ma una guardia giurata che si ritrova nelle mani degli strozzini, commette una rapina e finisce in carcere, luogo che segna la svolta verso il grottesco, al pari di quanto accaduto nel film originale. Il ruolo di Manfredi spetta a Fabrizio Bentivoglio, qui lirico e lisergico. Mazzacurati è abituato a scenari di questo genere, in cui la svolta passa attraverso l’imprevedibile, come succede nel Toro con uno strepitoso Diego Abatantuono.
Ritratto pop e fumettistico di esistenze stravolte, A Cavallo della Tigre è una commedia che, seppur di nascosto, descrive lo spirito dei tempi, con la medesima replica di intenti trasposta di quarant’anni, quasi a registrare il grottesco di esistenze che si evolvono spigolose, ingannevoli e invadenti. Il moralismo è assente, assieme ad intenti didascalici di sorta con possibilità o voglia di redenzione, dottrine e dogmatismi sterili. L’esagerazione umana, scenica e caratteristica sembra essere la vera cifra stilistica del film, un tratto preponderante su cui riflettere, riassunto nella modalità ultima con cui i personaggi agiscono nel tentativo di modificare il corso della loro vita. Non si tratta di onde, non si tratta di surf, come loro vorrebbero. Si tratta di una cascata. Goffredo Fofi la descrive come una: << (…) Piccola epopea sottoproletaria e, infine, a vederla oggi, quasi una fiaba senza tempo (…)>>.