Nella collana di teatro delle edizioni Tabula fati è stato da poco pubblicato un agile volumetto di Alfredo Vasco, intitolato Museo Pandemia Il compleanno. Attore, già allievo del grande Giorgio Albertazzi, regista ed autore egli stesso di decine di testi teatrali, Alfredo Vasco ha dedicato la sua vita al teatro al punto che sembra non avere più un’età definibile perché, come scrive nella breve nota biografica, «la sua età anagrafica dipende molto dallo stato d’animo». I tre testi che ci presenta, tre atti unici di cui due, Il cilindro e Agfar costituiscono la pièce Museo pandemia, sono legati tra loro dal tema trattato, che possiamo brevemente indicare nel declino dell’umano nell’uomo. Ma questo processo di disumanizzazione, che sembra irreversibile, non è dovuto ad un fato estraneo e cinico rispetto al quale noi uomini siamo come i cani di paglia del Te-tao-ching. È dovuto invece all’ambiente artificiale, ad una disperante e arida tecnosfera prevaricante sulla biosfera, che gli uomini si sono costruiti da se stessi e da cui non riescono più ad uscire. Ne Il cilindro i due anodini protagonisti (non a caso non hanno un nome e sono indicati come Uno e Due) si scambiano queste battute molto significative:
«DUE: Noti nulla di strano?
UNO: ?!
DUE: Si ha come l’impressione che fuori stia piovendo.
UNO: Forse piove.
DUE: Dovremmo deciderci ad uscire o sarà troppo tardi.
UNO: Mancano pochi minuti ormai.
DUE: Ho sempre odiato la pioggia. Non ti puoi difendere.
UNO: Dovremmo trasferirci al Sud.»
La pioggia! Una straordinaria metafora del clima morale che si insinua in tutti i nostri pori, che ci scivola addosso, che ci impedisce di vedere una via d’uscita, che rende “normale” un mondo abbrutito dalla droga, dalla mercificazione del corpo e del sesso, dal potere del denaro. A questa umanità dolente e disorientata, che si rispecchia in una sorta di museo degli orrori (museo pandemia per l’appunto), si presenta però forse un barlume di speranza, diremmo di umanità, grazie alla figura femminile misteriosa e bellissima di Sheilah (una novella Beatrice?), che appare in Agfar, un’oasi circondata dal desolato deserto ridotto a discarica, dove sono diretti i due protagonisti (anche qui Uno e Due). Esclama non a caso UNO: «Di questa parte del mondo mi piacciono i cieli e i silenzi…».
L’altro atto unico, Il compleanno, sembra pescare nell’attualità. Ben fotografa la situazione di questi mesi terribili in cui l’umanità intera sembra sconfitta dal virus cinese (creato in laboratorio), il senso crescente di angoscia, la solitudine, il restringersi degli spazi vitali e sociali, la paura dei contatti e dei rapporti umani, il chiudersi ognuno nella propria “botola”… e il pensiero corre a quei poveri malati medicalizzati, tecnologicamente isolati, che non possono nemmeno vedere un volto caro prima di chiudere gli occhi. I due protagonisti LUI e LEI con molta fatica, con grandissima difficoltà si liberano dalla botola in cui sono rinchiusi, non ascoltano più le autorità, tornano a cercarsi, a toccarsi, a baciarsi, si rivoltano e fanno in tempo a celebrare il compleanno (o la ricorrenza funebre?) di quello che per l’uomo è la speranza. Aleggia su di loro il tema dell’uomo in rivolta di Albert Camus: «mi rivolto, dunque sono».
«LEI: Come l’hanno chiamata?
LUI: Pandemia.
LEI: Non hanno avuto il coraggio.
LUI: Di chiamarla col suo vero nome.
LEI: La fine dell’umanità.»
Tutti e tre i testi, nei quali si avverte l’eco di Jonesco e di Beckett, hanno venature poetiche e metafisiche. Non raccontano storie, ma rappresentano situazioni e personaggi emblematici per la mancanza di significato. Provocano nel lettore una sensazione di raccapriccio, di disperante inerzia, un senso di fallimento della humanitas. Presi come testi da leggere hanno una loro indubbia validità, pur con l’avvertenza che «laddove strumento della poesia sono le parole, quello del dramma sono gli uomini che si muovono sopra una scena e che usano le parole. Le parole sono soltanto uno tra gli elementi dell’espressione» (Ezra Pound, in L’ABC del leggere).
Il linguaggio di Vasco, è crudo, a volte sboccato, a volte sfiora il turpiloquio. E osserva, non a torto, Daniele Giancane nella Prefazione: «questo teatro è più che altro un pugno nello stomaco. Un rispecchiamento amaro sella società odierna. Con un che, sempre, di imprevedibile e persino di surreale». Il linguaggio infatti non può che rapportarsi al tema trattato, la forma al contenuto. Ed anche qui vale l’ammonimento del grande Pound: «prima di decidere se un uomo è un pazzo o un grande artista, dovremmo chiederci non soltanto: “prova emozioni sproporzionate?”, ma anche: “vede forse qualcosa che noi non vediamo?”. Le cause del suo singolare comportamento non saranno forse un terremoto imminente o l’incendio di una foresta che egli presente e fiuta mentre noi non li prevediamo né fiutiamo ancora?».
Sandro Marano