I sessant’anni di Maradona e il tam tam mediatico scatenato intorno a questa data lo tirano giù da quella nicchia atemporale nella quale vive la sua immagine, ma non ne fanno una sia pur preziosa figurina dell’album Panini, quella che non trovi mai, nemmeno negli scambi dei doppioni, quella che celebra il più grande di sempre. Maradona è una stagione della mia vita – e questo è un fatto privato, anche se mi accomuna a legioni di appassionati del calcio di ieri, di oggi, di sempre – ma Maradona è anche una delle cento anime di Napoli. E proprio quest’ultima caratteristica costituisce la riprova che quella non è soltanto una città, ma un luogo dello spirito, un laboratorio di anime, un crogiolo di culture materiali e immateriali.
Ci sono stati altri calciatori nati in terre lontane e rimasti legati alla città che ebbe i suoi nomi dagli antichi greci e che li vide celebrati campioni dell’arte pedatoria: Pesaola, Vinicio, Canè, Krol e ora Dries “Ciro” Mertens; ma solo Diego ha interpretato il senso di rivalsa verso la vita e la storia di un intero popolo, nelle sue componenti più semplici e in quelle più colte. Ancora oggi poster e murales del “pibe de oro” adornano pareti di bar e negozietti, facciate e angoli di palazzi, quasi fossero edicole della Madonna o delle Anime del Purgatorio; echi dei fasti borbonici e di quelli sportivi del Napoli di Ferlaino compaiono periodicamente nella stampa e nelle tv locali, e rinfocolano, attraverso il tifo calcistico, quel riavvicinamento fra le classi che la Rivoluzione del ’99 aveva spinto, in maniera cruenta, su sponde opposte.
Ricordo che nel palazzo dove abitavo nella mia infanzia partenopea, di fronte ai Granili, vivevano lazzari disoccupati e professionisti, piccoli commercianti e “grandi ufficiali”; e unito da Diego e dai suoi – i Careca, i Ferrara, i Bagni, i De Napoli, i Giordano, i Francini, i Garella, e così via, tutti ancor oggi riconoscenti a “Isso” – questo popolo lo avrei ritrovato, con i miei figli e mia moglie, stretti in mezzo alla folla oceanica che in quel maggio del 1987 si accalcò in una piazza Plebiscito festante, giovani e vecchi, uomini e donne, in una gioiosa tempesta di bandiere azzurre.
Maradona non è stato, e non voleva né poteva essere, come altri campioni dello sport, un esempio di comportamento leale e morale, in campo e fuori: la sua innata abilità calcistica, che ne fece l’inarrivabile numero uno di sempre, unita ai suoi talenti di capopopolo e alla sua sfrontata, puerile innocenza, lo ponevano e lo pongono aldilà del bene e del male.
Il passaggio dalla cronaca alla storia e alla leggenda fu, come spesso avviene, doloroso: le immagini di Diego in fuga, stravolto dagli stupefacenti, e tutto il contorno di notizie circa le sue cattive , prima diffuse a mezza bocca poi squadernate in tutti i tg, ferirono tutta Napoli e tutti i napoletani, compresi quelli come me, dispersi in mezzo mondo; ma non da ora – e non solo nel giorno del 60° compleanno – Diego è stato consegnato alla cultura e all’anima di questa città, troppe volte sconfitta – e non solo sui campi di calcio – e così poche volte riscattata. Ecco, Maradona è stato uno degli ultimi a regalare momenti di gioia e di rivincita a questo che è diventato il suo popolo, che continua ad amarlo e a guardarlo come un’icona fuori dal tempo, di generazione in generazione.
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