Un’empietà studiata, programmata, scientifica. Se il calcio è – o forse era – “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, come scriveva Pier Paolo Pasolini, chi tiene le redini del sistema pallonaro sta portando avanti, ormai da anni, una sistematica profanazione dell’elemento simbolico che ha caratterizzato per decenni il calcio in Italia.
Un capitolo del romanzo popolare del Belpaese ridotto a merce, con un procedimento speculare a quanto avviene in tanti ambiti di un modello di società che cannibalizza qualsiasi elemento comunitario. Dallo strapotere delle pay-tv al caro-biglietti, dalla repressione nei confronti delle curve alla deriva finanziaria e debitoria, dalle logiche del marketing che calpestano maglie e tradizioni alle sperimentazioni sociali di nuove tecniche di controllo sociale, gli stadi continuano a essere uno specchio delle contraddizioni del mondo moderno. Analizzare l’evoluzione di questa deriva è l’obiettivo che un giornalista come Pierluigi Spagnolo – già autore di un libro cult sul movimento ultras come I ribelli degli stadi – si è dato con il suo ultimo volume, di recete pubblicato dalla casa editrice Odoya: Contro il calcio moderno. Un titolo che ha l’efficacia e la sintesi del manifesto. L’incipit è emblematico:
«Hanno rubato l’anima al calcio. Lo hanno cambiato, stravolto, rovinato. E adesso scaricano le colpe sui tifosi. Vogliono trasformarli in spettatori passivi, in semplici consumatori. In clienti».
Un libro che ha la lucidità dell’inchiesta giornalistica e il coraggio di schierarsi, fin dalle prime battute, in cui si denuncia il pallone sgonfiato divenuto
«un prodotto sofisticato, quindi sempre più finto, posticcio, che la prepotenza delle pay tv e le logiche economiche hanno spogliato di quegli elementi identitari e simbolici che da bambini ci hanno fatto innamorare del calcio».
L’effetto dell’affermarsi del calcio moderno è lo svuotamento degli stadi, e la trasformazione antropologica del tifoso, la gentrificazione che porta a reprimere l’autenticità della passione a vantaggio di una nuova forma di turista da stadio, più ricco e ammansito, meno passionale e antagonista. Una logica consumistica tipica del capitalismo più sfrenato, che toglie senso e valore alla spontaneità per puntare su logiche esclusivamente utilitaristiche, commerciali. La lotta contro la violenza negli stadi, da legittima aspirazione, si traduce in un moralismo falso e rapace. L’affarismo dei padroni del vapore si salda così al “calcisticamente corretto”, quell’insieme di onanistici divieti e censure che superano spesso la soglia del ridicolo, come nelle diverse declinazioni della “discriminazione territoriale” o nella tolleranza zero verso chi banalmente accende un fumogeno o porta un tamburo sui gradoni.
Chi ha portato avanti da sempre un’autentica rivolta contro il calcio moderno è bersaglio della più ferrea repressione: il movimento ultras italiano, pur con tutte le sue contraddizioni, viene sottoposto a esperimenti sociali degni di un romanzo orwelliano: dalla tessera del tifoso al biglietto nominale, dalle body-cam sugli stewart alle telecamere biometriche, dal daspo di gruppo alla flagranza differita. Gli apprendisti stregoni si accaniscono contro le voci dissonanti come su cavie da vivisezionare, magari per sperimentare misure che dagli stadi qualcuno già pensa di importare nelle città.
E intanto, ai tempi del Covid e degli stadi chiusi – o peggio, aperti su inviti selezionati, magari pagati dagli sponsor, neanche ci si trovasse dinanzi al privè di una discoteca esclusiva – si scopre che senza la passione del tifo, il calcio è davvero poca cosa. Ventidue simil-tronisti, sempre più viziati e patinati, che corrono dietro a una palla. Il senso di responsabilità oggi impone di rassegnarsi all’attesa di tempi più sicuri e tranquilli, prima di poter rivedere gli stadi riempirsi. Ma il sospetto, come scrive Spagnolo,
«è che la paura del virus, di un ritorno del Covid o di nuove epidemie, possa diventare un efficace pretesto per portare a temine il progetto: trasformare il calcio in un fenomeno esclusivamente televisivo, che sempre più di frequente si svolgerà a porte chiuse».
In Splendori e miserie del gioco del calcio, Eduardo Galeano scrive:
«In che cosa il calcio somiglia a Dio? Nella devozione che gli portano molti credenti e nella sfiducia che ne hanno molti intellettuali».
Per la sacralità del rito, per l’identità e l’aggregazione che si fanno elementi comunitari e popolari, non sembra esserci più posto nel calcio moderno. Ma, come hanno scritto sugli striscioni centinaia e centinaia di curve in Italia e nel mondo, “Football belongs to the people”. Il calcio appartiene alla gente. E, senza tifosi, semplicemente non esiste.
Il rito è fedeltà spesso irrazionale. Parlare di sacralità del calcio fa ridere… Lo poteva dire un Galeano orfano di Stalin (e pure di Castro)…Dovrebbe tornare ad essere sport…