Gennaro Malgieri, scrittore e tra i più lucidi intellettuali dell’area non conformista, ha raccolto in “Colloqui” (Solfanelli) interviste e dialoghi con grandi del Novecento, incontrati tra il 1974 e 1991, da Elias De Tajada a Massimo Fini, passando per Ettore Paratore, Maurice Bardeche e Alain de Benoist.. L’autore spiega la scelta di ripubblicare questi testi con una tendenza quasi irreversibile, “l’affievolimento della memoria e dell’interesse da parte di quell’opinione pubblica pure incline a occuparsi di dinamiche culturali”.
Barbadillo, rivista che ha il proprio fulcro nella ricerca sulle idee, ringraziando Malgieri, pubblica un estratto del volume: si tratta di un raffinato dialogo con Ernst Junger, guida spirituale di tanti ribelli contemporanei. Le opere dello scrittore tedesco costituiscono il filo rosso di questo spazio digitale costruito sulla rotta della libertà indicata dal Waldganger. (Michele De Feudis)
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Anarca – Ernst Junger
(HEIDELBERG 1895-RIEDLINGEN 1998)
Ho incontrato Ernst Jünger a Palermo nel nel 1986 in occasione del Premio Mediterraneo, organizzato dall’amico Tommaso Romano, che gli venne conferito in una cornice di pubblico entusiasta e ammirato. Nel capoluogo siciliano siamo stati insieme circa tre giorni punteggiati da riflessioni, racconti, aneddoti e giri per la città. La sosta davanti alla tomba dell’Imperotore Federico II Hohenstaufen fu particolarmente emozionante. E lunga. La sua segretaria in disse: “Credo sia la prima volta che pensi seriamente e profondamente alla sua morte”. Casualmente un’orchestra stava provando una Sinfonia di Gustav Mahler, uno dei musicisti più amati da Jünger. Molte conversazioni in quei giorni si sono accavallate, in compagnia di alcuni comuni amici.
Riproduco la sintesi di tali conversazioni così come la pubblicai all’epoca, nel novembre 1986.
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Se c’è un uomo oggi in Europa capace di racchiudere in sé l’anima del sapiente e quella dell’antico guerriero e farle esemplarmente convivere, questi è Ernst Jünger. La parola, il gesto, lo sguardo rivelano la prima natura; il portamento, l’entusiasmo, la forza che naturalmente palesa, rivelano la seconda.
Sapiente e guerriero, dunque, appare anche a chi non ha consuetudine con la sua opera, il novantunenne scrittore tedesco che dai temi remoti di Tempeste d’acciaio a quelli presenti de Il problema di Aladino non ha cessato, neppure per un istante, di considerare la trincea il suo tempio nelle pur mutate – e quanto rapidamente soltanto il Cielo lo sa! – condizioni storiche, culturali e civili. È per questo che il secolo che volge verso l’ultima ora lo ha visto senza alcun dubbio partecipe – da protagonista o da testimone – delle aurore e dei tramonti che da oltre settant’anni segnano i destini della Vecchia Europa. Sugli incerti orizzonti del Terzo Millennio, Ernst Jünger si staglia solitario, ultimo di una generazione di grandi in questo dopoguerra – e penso a Evola, a Montherlant, a Eliade, a Schmitt a Dumèzil – riuscendo ancora a dare un senso – un senso compiuto e mai banale – alla parola attraverso la quale sa condursi e condurci per i sentieri dello spirito.
Questa convinzione nutrita da molti anni, da quando presi a leggere Scogliere di marmo (ed ero poco più che adolescente), s’è rafforzata in me in due giorni di conversazioni che ho avuto con Jünger a Palermo dove è stato festeggiato in occasione del conferimento del premio «Mediterraneo». Riassumendo le parole talvolta è facile; ma le emozioni è certamente impossibile. Così, un’esperienza intellettuale e spirituale può solo essere approssimativamente accennata: Jünger è un mistero capace di trasmettere all’interlocutore attento la sua forza interiore, la ricchezza del suo passato, le sue molte nostalgie e la solare olimpicità del suo presente per nulla segnato, fisicamente ed intellettualmente, dalle novantuno primavere intensamente vissute.
Non lo si direbbe di un vecchio se non lo si conoscesse: il passo spedito, i tratti gentili del volto, la prontezza nel rispondere e nell’interrogare, il gusto nell’assaporare i cibi e le bevande (amante soprattutto della cucina piccante e del vino), una curiosità divertita tipicamente giovanile, l’eleganza nel vestire ne fanno un signore a cui si darebbero meno di settant’anni assai ben portati. La mia meraviglia per la sua vitalità, manifestata all’aeroporto dove ero andato a riceverlo, è continuata per tutto il tempo del suo soggiorno palermitano: già, il distinto signore tedesco non ha mai tradito stanchezza, fastidio, sofferenza.
A casa sua, a Wilflingen in Svevia, è la stessa cosa. Alla cortesia della signora Jünger, Liselotte, ed alla affettuosa amica della coppia, Inge Dahm (che parla correttamente l’italiano) debbo alcune delle informazioni sulla vita quotidiana dello scrittore. Ogni mattina si sveglia alle sei, fa un bagno freddo – proprio così – legge riviste e giornali, alle nove fa un’abbondante colazione, quindi passa molto del suo tempo allo scrittoio sbrigando corrispondenza, attendendo ai diari, lavorando a qualcosa; quindi lunghe passeggiate: ogni giorno due ore nel bosco; cena molto presto, quindi ancora letture (attivamente si sta dedicando ai Presocratici), fino a quando arriva il sonno; riceve tantissima gente che va a trovarlo da tutto il mondo e non si nega ad alcuno.
Fra tante cose ha anche il tempo di coltivare relazioni importanti: di recente è stato ospite dal presidente francese François Mitterrand in occasione dell’anniversario di Verdun.
In più di un interlocutore è sorta la curiosità di conoscere il segreto della giovinezza di Jünger; a tutti con la sua consueta amabilità lo scrittore ha così risposto.
“Non ho alcun segreto e non seguo alcuna disciplina particolare. Vivo in maniera sana. Comunque per stare in forma con me bisogna saper stare bene con gli Dei ai quali io dò molto e ricevo da loro moltissimo, soprattutto il sentimento del “pathos della distanza” che significa non dover chiedere loro mai nulla”.
La risposta mi ha fatto riandare ad una pagina recente del diario di Jünger, del settembre 1978, laddove scrive: «Alla scrivania: quando il ciuffolotto vola sulla mia finestra io sprofondo nella contemplazione. Di più non posso fare per gli Dei. Un messaggero». Ma Jünger erede nell’al di là, pur non essendo cristiano?
“L’al di là l’abbiamo dentro di noi – dice –. L’ideale del Paradiso è un ideale debole, non è la verità”.
La spiritualità di Jünger è dunque diversa, dalle connotazioni forse ancestrali, che ritrova in Italia ed in particolare in questo lembo d’Italia che è la Sicilia cuore del Mediterraneo non meno che dell’Europa.
Si entusiasma Jünger nel parlare del nostro Paese. Fin da quando ha messo piede a Palermo non ha perso occasione per parlare dell’Italia dove, fra l’altro, mi rivela aggirandosi per i sontuosi saloni di casa Basile-Maniscalchi ricchi di storia e di arte, c’è un musicista, Bandinelli, che sta preparando un’opera ispirata alle Scogliere di Marmo.
“La prima volta che venni in Sicilia l’Isola era abbastanza simile a quella che vide Ghoete. La seconda volta già mi sono sentito perduto perché laddove c’era una capanna sorge un albergo e colui che era un pastore s’è mutato in servo. Tutto questo non mi piace. Bisognerebbe avere del tempo per andare in mezzo ai contadini, fra i pastori a cercare la vera Sicilia, la vita bucolica che amo. Gli animali, la natura sono i miei attuali principali interessi piuttosto che il mondo delle macchine e della tecnica che mi è estraneo”.
Ma ancora prima di conoscere la Sicilia personalmente se ne era fatta un’idea che ama ricordare.
“La conoscevo soprattutto dalla lettura dei classici greci, in particolare da Tucidide. La Sicilia è un concetto storico, mentre l’altra grande isola italiana, la Sardegna è un concetto preistorico. In Sardegna sono stato ben nove volte, soprattutto nell’isolotto di San Pietro”.
Qui, va detto, in due occasioni Jünger ha rischiato la vita: la prima volta stava per annegare, la seconda quando fu morso da un pesce velenoso. Ma non per questo ha smesso di amare quella terra dove, mi ha detto, ha intrattenuto rapporti non soltanto con intellettuali ma anche con pastori e pescatori.
“Amo il Sud – afferma – perché credo di avere radici mediterranee”.
Ed il suo amore per questa parte del nostro Paese è datato a più di sessant’anni fa quando, come ricorda…
“Godevo di un amabile e piacevole soggiorno a Napoli dove studiavo una seppia, la “Loliga Media” che si cacciava esclusivamente nel Golfo partenopeo. Più tardi sono stato spesso in Italia: alcune volte per fare le cure di Montecatini, altre per trascorrere dei periodi di tempo all’Accademia tedesca di Villa Massimo a Roma”.
Amore mediterraneo
Ma c’è di più. Jünger aggiunge…
“Amo tanto il mare Mediterraneo che quando passa un anno senza che possa andare sulle spiagge, mi sembra un anno perduto”.
I viaggi in genere sono comunque molto amati da Jünger che ad essi non rinuncia neppure ora, alla sua bella età. Ma che senso ha viaggiare?
“Mi definisco rerum novarum cupidus. È un’abitudine, una bramosia, una voluttà. Ho sempre desiderato il nuovo. Sono un viaggiatore che corre, corre per raggiungere cose che svaniscono come la sera”.
È forse per questo che una volta Jünger si è descritto come una sentinella oltre la linea del nulla?
“Nella mia vita sono esistiti ed esistono soltanto avvicinamenti. Se, infatti, si cerca la stella in tutto il suo splendore, non la si troverà mai sulla terra”.
C’è in questa metafora jüngeriana il suo personalissimo senso della finitezza umana splendidamente descritto fra l’altro, nelle pagine del Problema di Aladino. Si ha l’impressione colloquiando con Jünger a tavola o per le strade di Palermo, prima o dopo i festeggiamenti, che egli ormai viva in un suo particolarissimo mondo, lontano da quello che è stato il mondo della sua giovinezza. In lui c’è sempre stato il mondo della sua giovinezza. In lui c’è sempre la baldanza dell’avventuriero, ma sono mutate le avventure: ora, attraverso la natura, scruta gli orizzonti dello spirito affidandosi alla contemplazione.
“Il movimento ideologico – mi dice – è divenuto più grande della sua sostanza, cioè di quello che ha prodotto. I grandi dittatori come Mao e Hitler hanno fatto solo movimento. Sono stati titani moderni che hanno dato solo illusioni, piccole figure davanti ai movimenti geologici”.
Il giudizio di Jünger è drastico, tagliente, non ammette repliche. Introduce la grande figura che campeggia nel suo pensiero: l’anarca. Affidato alle pagine del romanzo Eumerswil, l’anarcha jüngheriano è colui che, solitario, è in grado di opporsi fidandosi esclusivamente sulla sua capacità di resistenza, al cosiddetto Stato universale composto di nuovi titani (le figure illusorie) e dagli automi prefigurato da Jünger in Heliopolis. Non c’è dubbio che Jünger senta di appartenere alla razza degli anarca. Alle mie sollecitazioni risponde:
“L’anarca non si mostra, non ha bisogno di mostrarsi. È immobile, profondamente radicato in sé stesso di fronte agli sconvolgimenti, ai movimenti geologici come la guerra atomica.
È, dunque, l’esplicitazione contemporanea dell’uomo nietzscheano in grado di coltivare l’amor fati, di accettare il destino senza farsi travolgere”.
Nichilismo e superamento
È per questo che Jünger a chi gli chiede se si sente ancora un guerriero risponde:
“Mi sento piuttosto come un guerriero preistorico perché oggi la guerra è divenuta una specialità per chimici, fisici, ingegneri. Non ci sono più guerrieri nell’accezione tradizionale ed termine. La prima guerra mondiale è stata l’ultima guerra classica. Oggi confliggono i materiali, non più gli uomini. Considerando tutto ciò, dopo la seconda guerra mondiale ho scritto un libro intitolato “La Pace” a cui faccio risalire il rinnovamento del mio pensiero. La guerra, quindi, è diventata un concetto ontologico. È un incidente del grande movimento geologico”.
Nella visione del mondo jüngeriana, comunque, restano fermi numerosi concetti «prepolitici» che sono di ieri e di oggi: forse di oggi addirittura a maggior ragione. Dove sono oggi la borghesia e gli operai?
“Non esistono più classi nello Stato moderno. Il Lavoratore non è una classe sociale, ma una figura (Il riferimento all’opera L’Operaio è esplicito)”.
Cosa rimprovera alla modernità?
“Il fatto che il mondo diventa sempre più uniforme. Abbiamo perduto il bene della differenza. Il motivo è che manca la spiritualità”.
E dopo Il problema di Aladino?
“Il nichilismo è il problema moderno. Continuerà ad essere il nostro problema. Noi siamo nella condizione di Aladino: alla lampada possiamo chiedere ogni cosa, anche la distruzione della natura, la distruzione di noi stessi. La vittoria sul nichilismo è data soltanto dall’eterno ritorno”.
È fin troppo evidente che quest’ultima risposta rimanda al problema della tecnica e dell’uso che ne fa l’uomo a cui tanto Jünger, quanto il suo amico Martin Heidegger hanno dedicato numerose osservazioni. L’annotazione mi riporta con la memoria al movimento culturale della Rivoluzione conservatrice della quale Jünger fu uno degli esponenti di primo piano (in proposito mi dice che Erns Niekisch era per lui il prototipo del ribelle): che ricordo ha di quegli uomini, dei suoi amici, di tante speranze?
S’allarga in un sorriso dolce Jünger e nei suoi occhi leggo con un velo di nostalgia…
“Dovranno passare molti anni prima che si possa dare un giudizio spassionato e complessivo, almeno da parte mia. Troppo forte è ancora il richiamo di quel tempo, della Grande Guerra. Comunque, ciò che sicuramente ricordo è la grande forza spirituale di quella generazione”.
Anche quando parla, sia in tedesco che in francese, Jünger ama scegliere con cura i termini che meglio possono rappresentare i concetti che intende esprimere fedele, forse, a quanto scrisse nel lontano 1934: «Lo stile davvero bello si riconosce dalla sua oscurità nello di specchio. Sugli enigmi della profondità si scivola, come su pattini, su di un lago gelato». Ebbene che cos’è allora la lingua per Jünger? La risposta è disarmante:
“È il mio vero nemico. Così come Giacobbe si scontra con l’Angelo, io mi scontro con la lingua”.
Il risultato, bisogna dire, è prodigioso a giudicare da tutti i libri di Jünger ma in particolare da Il cuore avventuroso, recentemente riproposto da Longanesi, che si potrebbe definire un testo – per via dello stile – alchemico-esoterico.
Jünger era giunto a Palermo insieme con un temporale e temeva di dover stare tutto il tempo chiuso in albergo. Non appena il cielo s’è schiarito e sulla città è fiorito il sole caldo ed invitante, lo scrittore non ha indugiato a recarsi nei luoghi dove lo indirizzavano le sue nostalgie e la sua sensibilità. Il Duomo di Palermo, Monreale. Nell’antica chiesa cara agli Svevi, s’è fermato immobile per circa quindici minuti davanti alla tomba dell’imperatore Federico II. Il suo sguardo era impenetrabile. Perduto nei suoi pensieri Jünger è apparso contemplare la morte, un brivido metafisico. Un colloquio con l’eterno.
Stessa tensione, stessa atmosfera – come ha notato pure l’amico Tommaso Romano che lo accompagnava nelle peregrinazioni palermitane – a Monreale. Un altro segno: entrando nella cattedrale, un’orchestra che stava provando attacca la seconda sinfonia di Mahler: Jünger ne rimane impressionato. Come impressionato è davanti ad un piccolo coleottero adocchiato sui bordi della fontana del chiostro di Monreale. Lo prende nella mano, l’osserva, l’analizza, lo mette intasca. Una stranezza, un’eccentricità? Neppure per songo. Jünger, fra l’altro, è un grande naturalista. Ha dato il nome a numerosi coleotteri, il più famoso resta quello che significativamente volle chiamare «jüngerella».
Il naturalista, il forgiatore di parole, il decifratore di simboli e segni. Il metallo dello spirito fonde tra le sue mani e ti accorgi che tante cose che volevi chiedergli sfuggono, si rarefanno: più che il linguaggio possono i gesti che sono bastevoli a comprendere l’esatta dimensione di un grande aristocratico che la contemporaneità ha così tanto faticato a comprendere e, per certi versi, ad amare. È il prodigio della sua longevità ad aver procurato il miracolo? Chissà!
Jünger dice che è portato a dimenticare. Dimenticare gli insulti del dopoguerra, i travisamenti della sua opera, gli sciocchezzai di chi non ha mai letto una riga dei suoi diciotto volumi (l’editore Klett-Cotta di Stoccarda ha appena completato la sua opera omnia), delle polemiche che nel 1982 accompagnarono il conferimento del Premio Ghoete.
Ma Jünger non dimentica neppure chi ha amato o ammirato. Di Mircea Eliade, scomparso quest’anno dice:
“Sono stato legato in amicizia strettissima. L’interesse comune era la mistica ed insieme abbiamo fondato nel 1959 “Antaios, Giornale per un mondo libero”, uscito per diciotto anni”.
Di Julius Evola che per primo fece conoscere, attraverso un’esegesi, L’Operaio al pubblico italiano, ricorda:
“È stato un paio di volte a trovarmi in Germania e ho avuto con lui una lunga corrispondenza. Evola sosteneva l’importanza del mito e la sua supremazia sulla storia: questo è stato il dato più interessante della nostra affinità”.
Ricordi, ma anche progetti. Può sembrare un azzardo parlando di un uomo che il 29 marzo del prossimo anno compirà novantadue anni.
Lavora Jünger. Costantemente, senza pause si potrebbe dire. Cura in particolare i suoi Diari. Ha appena terminato il libro che s’intitola Due volte Halley.
“Fra qualche giorno sarà pubblicato da Klett-Cotta – dice con entusiasmo e giovanile soddisfazione – e si tratta di un libro sul mio più recente viaggio, quello che ho fatto a Sumatra e Kuala Lumpur la scorsa primavera. L’ho intitolato “Due volte Halley”, perché il Fato ha voluto che quest’anno rivedessi la cometa già mostratami da mio padre nel 1910 ad Heidelberg. Devo concludere che la cometa mi porta fortuna, contrariamente a quanto accadde allo scrittore americano Mark Twain che non riuscì mai a vederla: nacque nel 1835, un anno dopo la sua scomparsa, e morì nel 1910, poco prima del suo ritorno”.
Ma non si occupa solo di sé stesso, Jünger.
“Sono lieto che in Italia si pubblichi la migliore edizione critica delle opere di Nietzsche e che Calasso, per le edizioni Adelphi, stia per pubblicare il libro testimonianza del mio amico Carl Schmitt “Ex captivitate salus”. Ma quando si deciderà qualcuno a tradurre il Nietzsche di Heidegger? (È stato nel frattempo poubblicato da Adelphi, ndr)”.
La richiesta di Jünger la prendiamo come un auspicio. Intanto si sono ancora scritti fondamentali suoi che attendono di essere conosciuti in Italia. Il nostro attore non è certamente un tempo aperto alla speranza e per di più in esso s’insinuano devastanti tabe nichilistiche. Ma è forse un segno del destino, uno scherzo arcano, che in questo stesso tempo ci sia la possibilità di riconoscere uomini che sanno essere simultaneamente nel tempo e al di là di esso. Come s’addice all’anarca. Come Ernst Jünger.