Il pregio della poesia è la naturale refrattarietà a essere spiegata. La poesia si nutre di indeterminatezze, di stravaganze tra pensiero e immagine. Baudelaire le chiamò corrispondenze quando mise insieme l’oboe e il velluto. Prima di lui, ma per horror vacui , i poeti barocchi spinsero verso arditi accostamenti capaci di generare poesia. Molto dopo di lui Andrej Tarkovskij rivendicava al mezzo cinematografico il compito esclusivo di fare cinema, senza debordare nella narrativa. Lo scarto poetico tra sogno e realtà annovera le scope volanti di Rossellini e le fantasmagorie felliniane, passando per i corpi osceni di Pasolini fino a quelli disturbanti di Pina Bausch e alle carnosità dei mercati di Guttuso. Se lo scarto avviene in una casa della periferia di Palermo abitata da cinque donne, una folla di colombi e un fantoccio di Pinocchio, non solo scatta un incanto di poesia per e con macchina da presa, ma si precipita dentro il film “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante.
Di altre suggestioni si arricchisce la pellicola della regista palermitana che riesce, musa del connubio di tradizione e sperimentazione, a ingurgitare tutte le citazioni presenti nel film (letterarie, pittoriche e cinematografiche) e restituirle in un bolo emmadantesco. Al cibo Emma Dante riserva una delle sequenze più forti dell’intero film quando Maria, la primogenita, si abbuffa di pasticcini: la cinepresa, sfociando dal primo piano nel dettaglio, scaglia lo spettatore dentro la stessa bocca famelica della donna (più Bruegel che Arcimboldo) con i lineamenti devastati dalla vita.
Emma Dante è una regista onnivora, originalissima, caravaggesca. La sua drammaturgia della corporeità importuna lo spettatore, lo provoca fino a colpirlo in mezzo allo stomaco, al centro del petto, alle tempie. Non si esce illesi da uno spettacolo di Emma Dante e nemmeno è permesso stare nella terra di mezzo del piace o non piace. “Le sorelle Macaluso”, come la prima prova cinematografica di Dante “Via Castellana Bandiera” e come il suo teatro, esige un giudizio netto. Inutile chiedere a questa storia tragica e fiabesca di sorellanza una pausa -giusto il tempo di tirare il fiato- o di riflettere sulle inquadrature, sull’uso della luce e dei filtri, sull’avvicendarsi delle attrici. Tutto va in dissolvenza. Come nella vita: arriva da un buco certo e finisce dentro un buco misterioso (il film si apre e si chiude con un foro praticato in una parete di casa dalle ragazze). In mezzo c’è la lotta per sopravvivere. Danzando e morendo, amando con difficoltà.
Maria, Lia, Katia, Pinuccia, Antonella sono una famiglia per sottrazione. Non hanno genitori e vanno scemando una per una dentro un tempo che le coglie ragazzine, adulte e anziane e dentro la casa di famiglia che come loro perde pezzi, si rompe, si fa fatiscente. “Le sorelle Macaluso” è cinema poesia perché ha una storia esile, quasi un pretesto. Le sorelle si guadagnano il pane affittando, per cerimonie, colombi che tengono nella piccionaia sopra l’appartamento: di loro, una non cresce, una con gli anni acuisce la sua stranezza, due cercano la felicità nell’amore o nel sesso, un’altra si sposa, finché per tutte viene il momento di finire. “Le sorelle Macaluso” è cinema poesia perché ci sono la casa, i colombi, i corpi, la luce.
Emma Dante, che schiaccia man mano l’inquadratura dall’alto al basso della stanza, seguendo il corso del tempo e dei sentimenti delle sue donne e giocando con il principio della prospettiva (dal Rinascimento a De Chirico), trasforma la cinepresa in verso e dà una lezione di cinema di ineguagliabile densità. E stupore. I colombi sarebbero metafora troppo scoperta se la regista non avesse ammassato tra oggetti disfatti le loro ali, i becchi, l’occhio, il tributo alla loro irraggiungibile umanità e ad Anna Maria Ortese e se non ne avesse fatto unico stormo con la bara di Lia e il suo movimento uguale e contrario a quello della casa. I corpi sono colti nel dettaglio (il rossetto di Pinuccia, le labbra di Lia) o sono relitti di eternità fissati in una tenace memoria (Antonella resta sempre bambina) o si consumano nel livore della malattia oppure trionfano nella danza (una Nelken Line rock).
Livide si fanno le luci dopo l’esplosione delle scene iniziali ( le uniche dedicate a Palermo: il parco jurassico della Favorita, il lido Charleston a Mondello giallo di sole e di sabbia e azzurro di mare, l’arena impolverata) e i filtri seppiati sono omaggio alla luce del Merisi e della Merini “La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta e della luce che ne è venuta fuori”. Le cinque sorelle sembrano esse stesse la parafrasi di questi versi. Cinque corpi che sono un unico antifrastico corpo e cinque sorelle per dodici corpi di attrici. Un film al femminile, un film femminile e non femminista: dolce e spietato al tempo stesso, vario come le donne capaci dello stesso movimento del mare. Un parterre di attrici di grande impatto, anche la piccola Viola Pusateri, l’unica che resta in tutto il film della stessa età. Per le altre l’avvicendamento anagrafico. Lia è Susanna Piraino, Serena Barone (fu tra l’altro uno scandaloso Anfitrione al Teatro Greco di Siracusa con la regia sempre di Dante), Maria Rosaria Alati. Pinuccia da donna è una viscerale Donatella Finocchiaro, nelle altre età è interpretata da Anita Pomario e Ileana Rigano. Katia, la sorella meno obliqua, è Alissa Maria Orlando, Laura Giordani, Rosalba Bologna. Infine Maria, colei che si porta addosso tutta la dolcezza affranta del film è interpretata da una eterea Eleonora De Luca (a Venezia premio Imae Talent Award) e da Simona Malato, figura fiamminga. Attrici assai diverse che Emma Dante riesce a dirigere come cinque organismi scenici.
Film allusivo anche nelle musiche. Uno spartito curvo: da “Sognare, sognare” di Geraldina Trovato nel ballo iniziale (tributo a Palermo!Palermo di Pina Bausch messo in scena al Teatro Biondo durante la direzione della stessa Dante) a “Meravigliosa creatura” di Gianna Nannini con il punto più alto, Franco Battiato che canta “Inverno” di De Andrè.
“Le sorelle Macaluso” è una foresta di simboli, ma noioso sarebbe giocare allo svelamento delle metafore. Il fascino sirenico del film di Emma Dante sta nell’omaggio a tutte le possibilità del cinema. Il cinema? Meravigliosa creatura. Parola, anzi ciak, di Emma Dante.