Giorgia Meloni ha fatto un passo indietro. Sul referendum ha concesso ai suoi libertà di coscienza. Ma il capo di Fratelli d’Italia non ha fatto altro che fotografare la realtà e rendersi conto del fatto che, nonostante il suo tenace posizionamento a favore del sì, base e quadri dirigenti del suo partito non erano per nulla d’accordo e, anzi, si spendevano e continuano a farlo in queste ore per bocciare la riforma del Parlamento.
Sono almeno un paio le ragioni che hanno indotto la destra di base a eludere le indicazioni dei vertici. La prima è squisitamente di tattica politica: vincesse il Sì, il premier Conte interpreterebbe il responso del referendum come una fiducia concessa al suo esecutivo bis nel suo punto di parabola più basso. Gli restituirebbe forza e darebbe ossigeno a un governo che, altrimenti, pare ormai sfibrato al suo interno.
La seconda è di più ampio respiro: pur accettando il luogo comune secondo cui i parlamentari sono troppi, non è con le cesoie ma con una riforma che si cambia la rappresentanza politica. Questa riforma, infatti, rischierebbe di tagliare i posti in Parlamento nelle aree delle periferie, dei territori. Già sottoposti al dramma dei “collegi blindati” che hanno donato seggi a gente che manco ha ringraziato gli elettori che li hanno spediti in Parlamento, i cittadini della provincia rischierebbero di trovarsi senza la minima rappresentanza.
E, al di là delle questioni costituzionali (che andrebbero assolutamente affrontate da un partito, qualunque esso sia, che si candida a governare il Paese), se il consenso di Fdi è concentrato più nelle periferie, specialmente quelle meridionali, che nelle metropoli, è naturale che si venga a creare uno iato tra base e dirigenti. Ben più drammatico di quello che la Meloni ha voluto evitare cavalcando la vecchissima battaglia tardo-missina del taglio ai costi della politica che, intanto, s’è intestata il M5s.
Forse era dai tempi tumultuosi del referendum sul divorzio che la destra non viveva una così vivida contrapposizione tra base e vertici. La Meloni se n’è accorta in tempo. Ma non può bastare.
È il momento adesso, da Roma, che si riprendano in mano i manuali e i codici e si pensi a una riforma strutturale seria della forma governo, su cui imperniare il programma politico prossimo venturo.