Un nomade globale, che vive tra Asia e America, Federico Rampini, in un testo ricco di riferimenti e citazioni e corredato da un’ampia e ragionata bibliografia, sonda le radici culturali di “Oriente ed Occidente” (Einaudi) e percorre più di tre millenni di storia alla ricerca di tracce di reciprocità e alterità tra Est e Ovest, indispensabili per comprendere l’oggi con tutte le sue contraddizioni. Alla fine della lettura, una congerie di luoghi comuni, tra cui il principale, la pretesa superiorità dell’identità occidentale, viene ribaltata: “Tra noi e loro è in atto da millenni un gioco di specchi rovesciati” che certamente ha contribuito a creare un’identità differenziata, “ma è un gioco in cui forse si stanno invertendo i ruoli” e presto sarà l’Oriente a stabilire il canone in base al quale “dirci chi siamo noi”.
Una antica contesa
La contrapposizione, in termini di scontro di civiltà tra ‘noi’ e ‘loro’, nasce con le Guerre Persiane. Da un lato la Grecia, testimone di razionalità e pragmatismo, culla dell’individualismo, inteso come esaltazione del singolo uomo, gelosa dell’autonomia delle poleis e della libertà dei suoi cittadini, dall’altro il grande Impero persiano multietnico, dispotico, brulicante di sudditi obbedienti, luogo di dissoluzione e lascivia. Un’immagine fortemente ideologizzata, questa, che da Erodoto, il primo storico ellenico, si perpetra fino ad Alessandro Magno. Il sogno dell’Argeade è liberare, appunto, quelle regioni dalla peste perniciosa della tirannide e esportare colà usi e costumi greco-macedoni. Per la prima volta “lo spazio geografico si comprime, l’Eurasia si compatta”: il nodo di Gordio è, nell’interpretazione di Ernst Jünger, il simbolo dell’Asia, dominata da forze brute, primordiali e arbitrarie che la spada di Alessandro, emblema della ragione, con un taglio netto, recide.
Ma quando si accorciano, invece, le distanze tra Occidente ed estremo Oriente? Per secoli, i rapporti tra questi due mondi sono regolati da necessità commerciali, ma idee e credenze religiose hanno accompagnato le carovane che percorrevano la via della seta. Benché i contatti tra Europa e i Seres, ‘gli uomini della seta’, almeno fino al Basso Medioevo, siano episodici, anche in virtù della scarsa curiosità di quel popolo progredito e avanzato verso gli incivili occidentali, essi pure esistono. Vestigia di castra di origine romana – conferma Homer Dubs, sinologo americano – si rinvengono nella zona di Liqian, probabili insediamenti creati dai milites di Crasso sconfitti a Carre nel 53 a.C., fatti prigionieri e ivi deportati.
Il fattore religioso
È il proselitismo delle religioni monoteiste a forzare le tappe dell’esplorazione in quelle terre misteriose. Prima i nestoriani, gli eretici monofisiti cristiani scacciati dall’Asia minore dopo il primo Concilio di Efeso (431), poi gli accoliti di Maometto. L’Islam diventa il tramite, non sempre agevole, attraverso cui le due estremità del globo si parlano. La spedizione perlustrativa di Marco Polo presso Kublai Kahn è pensata per aggirare l’ostacolo saracino e per gettare ponti tra la Serenissima, in piena espansione marittima, e l’impero celeste. I principi occidentali, impegnati nella lunga sequela di crociate, invocano l’aiuto degli invincibili eserciti dagli occhi a mandorla per estirpare la piaga degli infedeli musulmani. Il nemico è comune e temibile anche per il Signore del Dragone, che è disposto ad inviare truppe a sostegno della causa cristiana, a patto che quei re barbari e rozzi si sottomettano a lui. Le infiltrazioni del Cristianesimo in quella estesa landa incominciano, secondo alcune fonti, con l’apostolo Tommaso e proseguono con l’ardita opera di evangelizzazione messa in atto dai Gesuiti, spinti a guadagnare alla religione della croce nuovi seguaci per equilibrare il numero dei riformati fuoriusciti dall’alveo della Chiesa di Roma, tra questi spicca Matteo Ricci da Macerata. Spesso queste missioni religiose nascondono altri fini: carpire i segreti del ‘made in China’ nel campo della lavorazione della seta, il must del lusso anche e soprattutto per i ricchi europei. Inizia, così, un’attività di ‘spionaggio industriale’ che assesta un bel colpo ai loro traffici: chi la fa, l’aspetti!
Dispotismo orientale
Anche l’arte subisce il fascino orientale: Giotto, Pisanello, Bosch, Bruguel immortalano ‘cineserie’ nei loro dipinti. Ma è con l’Illuminismo che l’apparato imperiale celeste è ammirato come un modello ineguagliabile. Il “dispotismo orientale”, coniato da Montesquieu, condito da “paternalismo autoritario”, concetto elaborato da Voltaire, solleticano l’attenzione di idéologues e philosophes francesi. La formula “dispotismo orientale” è utilizzata anche oggi per illustrare come mai “la Cina, per la sua complessità, per la sua grandezza, per le sue consuetudini storiche sia governabile soltanto con una dittatura”: in fondo – commenta Rampini – è come se “un po’ del pensiero di Montesquieu e Voltaire” sia stato fatto proprio da chi è al timone del colosso asiatico.
Parallelamente, l’imperatore cinese, amministratore accorto ed efficiente, incarna il mito platonico del re-filosofo, che guida con saggezza le masse. Esso – secondo una nutrita scuola di pensiero – ispira l’esperienza della Dittatura giacobina, la Terza fase della Rivoluzione francese, per ritornare ad est, a caratterizzare l’icona del “buon padre delle nazioni” di marca leninista-stalinista e quella del lingxiu (leader-padre supremo) maoista. Un esempio perfetto di circolarità culturale.
I giganti asiatici
Nei capitoli centrali, il giornalista esamina la storia recente dei tre giganti asiatici Cina, Giappone, India, attraverso il filtro interpretativo di due categorie storiografiche, orientalismo e occidentalismo, già ben illustrate da Edward Said e da Ian Buruma e Avishai Margalit. I due principi sono di fatto speculari. Il primo, a dispetto del nome, è frutto di una visione occidocentrica, che si sviluppa a partire dalla Prima Rivoluzione industriale e si amplia con la Seconda. Lo start up tecnologico impone l’accaparramento di nuove terre per approvvigionarsi di materie prime: inizia la corsa ad Est. Le tappe della conquista sono supportate dal “collante ideologico” dell’idea hegeliana della Storia: l’Europa, sede dell’Assoluto ed erede della sofisticata cultura asiatica, deve svolgere la missione civilizzatrice a cui è chiamata, accendere la miccia del Progresso universale presso le genti orientali, rimaste indietro, e liberarle dalle tenebre. L’occidentalismo è l’altra faccia della medaglia. “L’Occidente diventa per molti asiatici un modello da seguire, paradossalmente, proprio quando mostra il suo volto più aggressivo” – sostiene Rampini.
In Cina, la vittoria anglofrancese nelle due guerre dell’oppio, la razzia del Palazzo d’Estate, gli orrori commessi dai vincitori persuadono i governanti che usare gli stessi strumenti di morte degli invasori può arginare la propria decadenza. Mode, ideali, dottrine importate da Ovest irrompono ad Est. La stessa filosofia comunista non è un’invenzione di Mao Zedong – commenta lo studioso -, ma proviene dalla Germania. Alla morte di Mao, Deng Xiaoping, riprendendo un vecchio slogan “imparare l’utile dall’Occidente, conservare l’essenza della Cina”, spalanca le porte al capitalismo e, nel contempo, cerca di mantenere intatto il ricordo del passato.
XI Jinping, “il più sovranista e ultranazionalista tra i leader cinesi”, compie “il grande balzo in avanti” (quello non realizzato da Mao), trasforma il suo Paese nella seconda potenza economica del globo, ma fallisce nel bloccare l’occidentalizzazione delle abitudini di vita. E alla fine le vecchie usanze diventano un imbarazzante souvenir per gli stessi cinesi, specie per i giovani. Un fenomeno che investe anche il Paese del Sol Levante e, in misura inferiore, l’India. Sconcertante, in questo senso, è il caso del Vietnam, che in questi anni sta assorbendo, con imbarazzante velocità, istanze occidentali e sta diventando meta turistica prediletta degli ex nemici, accolti con simpatia e trasporto. Effetti stroboscopici dell’oblio della memoria, ottenuti a suon di dollari!
Il Giappone oscilla tra isolazionismo e conservatorismo e modernità postfuturista, tra derive fasciste e totalitarie e spinte centrifughe verso la liberaldemocrazia. Anche in questo caso, lo scontro commerciale con gli USA, alla fine del XIX secolo, e “la politica delle cannoniere” infligge al Paese un’umiliazione che fa scattare una rivolta: è la restaurazione Meiji. Viene ridimensionata la vecchia classe dirigente feudale, ristabilita la centralità dell’imperatore, mentre viene innescato un prodigioso processo di industrializzazione. Se la parola d’ordine è Bunmei- Kaika (Illuminismo e civiltà), motto di sapore occidentale, se ci si avvale dell’esperienza di ojatoi gaijin, consulenti stranieri, la resistenza del Sol Levante ad una totale sottomissione culturale è data da tradizioni molto radicate. Il “teismo-taoismo”, dittico pertinente inventato da Rampini, protegge questa nazione dalla omologazione. L’isolazionismo del nuovo corso statunitense di Trump e le diritture nazionalistiche di Abe Shinzō (e del suo successore ancora non noto) possono riarmare la Terra dei ciliegi e ridisegnare la cartina geografica di quell’area.
L’India, al pari della Cina, è uno Stato-civiltà (Samuel Huntington), in cui il nazionalismo, di nostra importazione, si è innestato su millenarie fondamenta ancestrali. È una miscela che, se affidata ad un incendiario, potrebbe esplodere. E sta esplodendo. La seconda democrazia mondiale, guidata da Narendra Modi, “la versione indiana di Trump, Boris Johnson, Marine Le Pen, un reazionario razzista, con l’aggravante del fondamentalismo induista, <attivo> nel riabilitare le caste e aizzare pogrom antislamici”, rischia di fare un passo indietro nell’oscurantismo e accelerare la fuga dei cervelli.
Consumismo a Est, Buddismo a Ovest
Nel contempo, per un imprevedibile processo di osmosi, se il materialismo irrompe ad Est, buddismo, taoismo, induismo (meno il confucianesimo), si radicano ad Ovest. Affascinano nel corso del tempo, scrittori (Hesse), cantanti (Beatles), scienziati (Matthieu Ricard), imprenditori (Steve Jobs), attori (Richard Gere), calciatori (Roberto Baggio) e gente comune. Ashram, monasteri buddisti sorgono ovunque, il karma o il nirvana sono perseguiti da chiunque non abbia trovato giovamento nella psicanalisi, molti, anche inesperti, si improvvisano maestri di yoga indicando la via dello zen a donne e uomini sull’orlo di una crisi di nervi. Un ibridismo pseudoculturale disorientante, ma molto molto redditizio, prende il sopravvento: gli Asiatici stessi trasformano “in un business l’esigenza di spiritualità, nata in risposta alla vacuità della società occidentale”, cannibalizzata dal turbocapitalismo. Così si moltiplicano i viaggi in Tibet, a Kyoto, in ogni pertugio, purché avvolto da un alone di santità.
Migliaia d’anni di incontro-scontro tra noi e loro tornano oggi di stringente attualità di fronte alla prova del coronavirus. Se la Storia insegna che le pandemie hanno anticipato o contribuito a provocare la fine di grandi Imperi, quale delle due ali del mondo saprà risollevarsi prima e quale inesorabilmente decadrà – si chiede l’autore. Da sempre le vie di comunicazione sono state “autostrade perfette” per la diffusione di morbi che hanno sparso flagelli e falcidiato moltitudini. Tuttavia la continua esposizione ai contagi, ha costruito per entrambi un’immunità di gregge. Ma la capacità di propagazione virale ai tempi della globalizzazione è salita esponenzialmente con la velocità e l’ampiezza dei flussi: nel giro di pochi mesi il Covid 19 da Wuhan è passato in Europa e nel resto del mondo. A parte le supposizioni razionali sull’eziologia, spillover dal pipistrello o dallo zibetto all’uomo, fuga da un laboratorio impegnato nella ricerca di nuovi vaccini per malattie già note o nella preparazione di armi chimiche, si ripropone sia in Oriente sia in Occidente, una genesi divina e apocalittica: l’arrivo della calamita è il segnale inviato dal Cielo di un imminente cambiamento.
Lo stress test, secondo Rampini, vede in svantaggio l’Occidente: i confini tra le Nazioni d’Europa si sono acuiti, il neoprotezionismo ha rallentato le forniture mediche tra Paesi, insomma, ha restituito dell’Occidente un’immagine disastrosa “un’accozzaglia di paesi in affanno con carenze paurose nel tutelare il bene più prezioso, la vita umana”.
Il caso Cina
L’inossidabile Xi, “l‘imperatore” comunista, solo al principio, ha tremato di fronte alle accuse, lanciate a livello globale e pilotate dalla stampa americana, di aver mentito sull’insorgere dell’agente infettivo e di aver insabbiato notizie sulle cause. Poi, con un coup de théâtre, le sue sorti sono risalite: l’efficienza cinese nel contenere i danni della malattia, la generosità nell’esportare materiale medico (talvolta tarocco) hanno rinverdito i fasti di Pechino. E velatamente si è insinuato nell’opinione pubblica mondiale il precetto che le dittature, nei frangenti tragici, mostrano maggior tenuta e controllano meglio le masse. Secondo Rampini, tale diagnosi è solo parzialmente vera, in realtà, è il senso del dovere e della disciplina, insito nel confucianesimo, ad aver permesso alla Cina di normalizzare rapidamente l’emergenza. Oltre che l’azione del Partito comunista, “un esercito dormiente di riservisti, pronto a risvegliarsi quando la patria chiama”: così alle dipendenze di Xi, il Partito, che ha sdoganato la ricchezza (“arricchirsi è glorioso”), si è mobilitato e, come in guerra, ha fronteggiato il male. Una propaganda sagace ha fatto il resto. Ma è sicuro che la Cina riuscirà vincitrice dopo il Co19?
Non tutti gli esperti si dicono certi. Se si invertono i parametri di sviluppo di un Paese, come consiglia il premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, ci si accorge che la Cina è manchevole: la qualità della vita non è uguale per tutte le fasce sociali, il sistema sanitario è a doppia o tripla velocità, la censura è capillare ed estesa. Il Covid ha aumentato le spaccature interne.
E quindi?
Dopo un simile trauma, il mondo cambierà – afferma l’autore -, lo shock emergenziale diventerà una costante con cui convivere. Il pendolo tornerà ad oscillare sempre più ad Est. Ma ad Oriente non c’è solo la Terra dei Mandarini, si affacciano altre realtà pronte a scrivere nuovi capitoli della storia universale.
Gli altri non so, ma i cinesi sono i nostri nemici. Facciamo di tutto, giacchè non li possiamo schiacciare, almeno per boicottarli e contenerli. A cominciare dalle ridicole auto elettriche, ibride plug-in dell’ecologismo stupido e gretino…
Rampini é uno dei pochi giornalisti di sinistra – se non l’unico – che espone il proprio pensiero in maniera obiettiva, e mai offuscato dall’ideologismo. E non si arroga di alcuna “superiorità morale e culturale” che tutti i membri dell’intellighenzia di sinistra radicalchic si attribuiscono.
La Cina potrebbe essere il nostro possibile amico nel momento in cui ci si affranca da altri padroni. O, perlomeno, costituire uno spauracchio per ristabilire un equilibrio bipolare in un contesto globale in cui vi è stato uno strapotere assoluto targato USA.
Poi, certamente, nessuno si azzarda ad essere inopinatamente filocinese.
La Cina può trasformarsi, temporaneamente, in un alleato per spostare il baricentro della nostra posizione in ambito estero. Ora siamo poco più che trasparenti: paventare un cambio di rotta può spostare gli equilibri e far salire stima e autostima internazionale.
Poi, è perfettamente chiaro che uno Stato che non rispetta i diritti può rivelarsi un pessimo compagno di viaggio.
La Cina non sarebbe un ‘compagno di viaggio’, ma un alleato egemone…
Non abbiamo il potere di ‘ricattare’ nessuno, meno gli americani…
Noi non pesiamo a sufficienza e non siamo in grado di spostare alcun baricentro… La nostra posizione internazionale è stata determinata dalla sconfitta nella WWII. Poteva pure andarci peggio…
Oggettivamente non vedo una società più squallida di quella occidentale (per fortuna in putrefazione). Sia come “stile”, ma anche, visto il debito, a livello economico nel lungo termine, non sono rosee le prospettive delle nazioni cosiddette “occidentali”. Le alleanze eventuali, ad esempio i cinesi o i russi, costituiscono materia transeunte e secondaria: determinante è che gli europei prendano atto dello sfacelo – soprattutto morale – che li riguarda e che reagiscano con forza.