Il 1997 fu senz’altro un grande anno per il cerimoniale italiano. Il Quirinale, sotto la guida di Oscar Luigi Scalfaro, distribuiva onorificenze a destra e a manca e in particolare, concedeva la più alta che il nostro Stato può concedere – il titolo di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana (con aggiunta di Gran Cordone) – a Lennart Meri, ministro dell’allora neonata Estonia il quale, negli anni del comunismo, era stato spedito come dissidente politico in Siberia. Tornato in libertà, Meri si era dato alla scrittura e alla regia, realizzando anche una interessante serie di documentari sui pastori del centro Asia.
Scalfaro, o chi per lui, doveva essersi evidentemente appassionato di queste realizzazioni e di conseguenza del centro Asia al punto che assieme all’estone fu premiato con la più alta onoreficenza anche tale Islom Karimov, uzbeko. Karimov era all’epoca presidente del neonato Uzbekistan, lo era dal 1991 – anno di nascita dello stato ex sovietico – e, incredibilmente, lo è ancora oggi. Ininiterrottamente presidente da 22 anni, alla faccia di Renzi, di Grillo e del ricambio generazionale. Il buon Karimov, le cui virtù erano plausibilmente note a Scalfaro, nel corso degli anni seguenti si distinguerà poi per l’accusa di aver incarcerato e quindi bollito a morte (esatto: bollito a morte, come si fa con le aragoste) qualche decina di oppositori politici. Un premio veramente ben assegnato.
Non è finita qui, perché come dicevo il 1997 fu veramente un grande anno per l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana: infatti, proseguendo nel trend centroasiatico, l’onorificenza fu concessa anche a – rullo di tamburi – Nursultan Nazarbayev. “E chi è?”, urla qualche distratto dal fondo della sala: lo ringrazio della domanda. Il signor Nazbarayev era, nel 1997, il presidente del Kazakistan; lo era dal 1991 – anno di nascita dello stato ex sovietico – e, incredibilmente, lo è ancora oggi. Esattamente: è proprio quello che poco tempo fa si è fatto consegnare dallo Stato italiano la moglie e la figlia di Ablyazov, oppositore del regime kazako. Anche questo, non c’è che dire, un premio ben assegnato.
Il Cavalier Nursultan è stato fino poco fa ignoto alla gran parte degli italiani, ma non a me. L’avevo già incontrato qualche anno fa quando inciampai in un interessante saggio di tale Rein Mullerson, professore al King’s College di Londra e già osservatore per l’Onu nel centroAsia. Mullerson passava la prima parte del proprio saggio a spiegare come fosse quantomeno ingenuo ritenere di poter esportare o peggio forzare la democrazia nei paesi dell’Asia centrale (se pensate a Iraq e Afghanistan potete farvi un’idea); più avanti nel suo scritto, Mullerson proponeva quindi un’analisi sui possibili sviluppi della politica negli stati dell’area e, come esempio, prendeva proprio il Kazakistan; la repubblica anche nota col nome di Cosacchia è uno stato enorme (il più grande al mondo privo di uno sbocco sul mare) ricco di preziose risorse naturali, ma, malgrado questo, tradizionalmente povero. Il Cavalier Nursultan fin dal principio, secondo Mullerson, ci vide bene e, prendendo esempio dagli ex sovietici, comprese velocemente i vantaggi pratici del capitalismo e dell’economia di mercato; ma il Kazakistan, che da un lato ha la Russia, dall’altro confina con la Cina: e anche da loro Nazbarayev seppe prendere esempio.
Il presidente, infatti, similmente agli eredi di Mao inaugurò una politica economica di sostegno alle società kazake (tutte o quasi controllate dal Governo) che, potendo contare sul monopolio del mercato interno, hanno saputo con discreto successo affacciarsi sul mercato globale. Si scrive Kazakistan, ma si può leggere anche: Cina.
Il presidente ha l’accortezza di investire gran parte dei capitali entrati nella sua nazione in infrastrutture, ospedali, scuole e addirittura per costruire una nuova capitale, chiamata con grande fantasia Astana (che in kazako significa: capitale); il presidente/dittatore cerca insomma di aumentare, notevolmente e rapidamente, il tenore di vita dei propri concittadini/sudditi, con un tasso di crescita non sostenibile in un paese libero. Qui l’osservazione si fa spietata: può essere questo il futuro della dottrina dello Stato post-democratico? Un nuovo Leviatano, un patto con il quale i cittadini rinunciano ai propri diritti politici in favore di un governo centrale, esecutivo e autoritario, che monopolizzando il mercato interno accresce la competitività internazionale e, di conseguenza, la ricchezza pro capite? Un governo che, in cambio della propria antidemocratica stabilità, promette l’afflusso e la distribuzione di nuovi capitali? Possibile un baratto tra la libertà e il benessere materiale?
Secondo Mullerson questo è un rischio evitabile attraverso la promozione della cultura (umanista, illuminista ed europea) dei diritti umani; secondo me, viceversa, più che un’eventualità è lo scenario più ampiamente probabile.
Sì, perché come si parla della generazione dei “nativi digitali”, ragazzi nati e cresciuti nell’era del computer e di internet e dunque più abili nel loro utilizzo rispetto alle generazioni precedenti, vorrei inaugurare anche la nozione di nativi globali, riferita non più a persone, ma a Stati: paesi nati quando il mercato già diventava globale e dunque, da subito, adattati e inseriti rispetto a questo nuovo, poderoso, spietato, meccanismo economico. Parliamo del Kazakistan, parliamo della nuova Cina, parliamo di qualche episodio sudamericano e africano. Parliamo dell’India.
L’India, il paese con il quale l’Italia non è entrata in guerra per salvare i propri marò, il paese con il quale non abbiamo litigato per non riavere i nostri marò, il paese che, a detta di molti, ha reso evidente la nostra leggerezza sul nuovo scacchiere internazionale. Bei tempi, quelli in cui non litigavamo con l’India! Un’economia rampante di un miliardo e mezzo di persone, nazione dinamica e affascinante, enorme, un subcontinente; oggi, invece, non litighiamo con il Kazakistan, un paese di rispettabili storia e tradizione, ma che fino all’episodio di Shalabayeva e figlia era conosciuto dalla maggior parte degli italiani come la patria del baffuto Borat, misero giornalista che limonava con la sorella e cercava di rapire Pamela Anderson. Esatto: ci siamo fatti infinocchiare dal paese di Borat – che non è ancora Cavaliere, ma visti i tempi potrebbe anche divenirlo.
Così, mentre Nazbarayev vince onorificenze in tutto il mondo e sponsorizza ciclisti e si riporta a casa Shalabayeva e figlia (che nel migliore dei casi saranno ostaggi per il resto della loro vita), da noi il telegiornale mostra il ministro degli Interni spiegare che nessuno gli ha detto nulla, che non sapeva dell’operazione che ha portato cinquanta poliziotti a imbarcare due perseguitate politiche su un aereo per Astana, alla corte del Cavalier Nursultan (ben diversa da quella del Cavaliere Silvio); e il governissimo (che dovrebbe risollevare l’economia, sostenere l’occupazione, decidere dell’IMU, cambiare legge elettorale, riformare province e parlamento) si perde dietro l’orango di Calderoli, i processi di Berlusconi, le sfide di Renzi, la sfiducia ad Alfano, et similia; e la domanda che vorrei fare io è: se aveste dieci euro da puntare, da qui a vent’anni, sull’Italia o sul Kazakistan, su chi osereste scommettere?
@barbadilloit