Come si fa a raccontare uno spettacolo che lascia senza parole? La mente come un vocabolario bisunto e lacero: chi ha strappato la pagina al “su? Superbo o sublime? Vado alla emme: basterà magistrale? Cerco un sinonimo: eccellente, impeccabile, perfetto, maiuscolo, sublime. Allora sì, sublime. E adesso proviamo a tornare a teatro. Alla luce bianca, fredda o lucida (come la follia) che illividisce le pietre del teatro più antico del mondo. E ascoltiamo la voce. No, lo scroscio. Cinque minuti di applausi. Luigi Lo Cascio che scorrazza felice sulle assi del palcoscenico montato ai piedi della cavea del Teatro Greco a prendersi tutti quei battimani e i “bravo” che arrivano dal pubblico, mentre tira a sé GUP Alcaro, il genio musicale, più timido ma allo stesso modo sorridente o alza in mano il copione per rendere omaggio a Ghiannis Ritsos, il poeta di “Aiace”.
Il Teatro Greco ieri sera era fatto di carne: sussultava, palpitava, ammutoliva, si rapiva. Seduto su uno sgabello, microfono in mano e leggio c’era Luigi Lo Cascio “Aiace”. Proprio così. Senza virgole, due punti o altra grammatica. Lo Cascio Aiace. Come Lo Cascio Peppino Impastato o Totuccio Contorno. Luigi Lo Cascio che manda in frantumi il paradosso diderotiano: in lui la sensibilità è sublimazione. Luigi Lo Cascio che si riappropria dell’alfabeto dei suoi personaggi, dell’eroe greco, essere umano dolente e folle, raziocinante e spaesato, vittima del destino o del maleficio di una dea, eroe incontaminato.
Ghiannis Ritsos, poeta neoellenico e militante comunista, imprigionato e torturato, nel 1967 nel campo di concentramento di Leros comincia a scrivere “Aiace”, uno dei diciassette poemetti di “Quarta dimensione” dedicati ai miti e al dramma antico. “Poeta fulmineamente reattivo” per Vittorio Sereni, generoso e grande per il suo traduttore Nicola Crocetti, Ritsos nelle parole di Moni Ovadia “dimostra che la poesia è nutrimento, aria necessaria da respirare”. Il respiro: l’affanno di Aiace Telamonio, colto lontano dai campi di battaglia, sterminatore di nemici e di greggi, diventa il ritmo di Lo Cascio ansimante, rabbioso, rallentato, quasi vellutato. Il ritmo del respiro dell’attore è il ritmo della voce di Aiace, come un mare che si fa tempesta e si placa, seguendo le onde del pensiero: alte e spumose quando si perde nella follia e nel dolore della verità; lunghe e lisce quando la morte diventa necessaria, eroica. Il respiro della musica. Visionaria, metallica, stridente, ronzante come la mosca che infesta la mente dell’eroe, disonorato dall’astuzia di Odisseo nella contesa delle armi di Achille. Musica che è scenografia quando si fa vento e mare. Sceneggiatura quando si fa passi, ansimi, galoppo, stridore di ferri. Scuote le pietre, fa tremare le sedie. GUP Alcaro -musicista sperimentale e ingegnere anzi artista del suono- crea una camera sonora con lo spazio del cielo e il corpo dell’attore. Dà occhi per vedere l’invisibile.
Gli occhi neri e sirenici di Lo Cascio hanno un movimento di risacca: assorbono Aiace e penetrano uno per uno gli spettatori. Anche quando abbassa la testa sul leggio, quegli occhi scagliano Aiace tra le braccia di chi ascolta. Dov’è la quarta parete? Quel luogo immaginario in cui lo spettatore può rifugiarsi dalla catarsi e pensare di essere innocente. Sparita. Eppure il leggio doveva essere scudo. Nessuno scudo: si avanza uno per uno sull’orlo del precipizio dell’eroe, assorti assieme all’evocata Tecmessa (compagna di Aiace, pallida, spaventata e segretamente adirata) e al figlio. Tutti dentro il dramma, tutti timorosi che intruse folate di vento sfoglino troppo in fretta le pagine sul leggio, afferrati dalla eccezionalità di una lettura che nemmeno per una frazione di secondo ha smesso di essere recitazione.
Mimesi tra il corpo dell’eroe “un uomo aitante, di corporatura robusta… sul viso un’espressione di spossatezza, pena, affatto incompatibile anzi sconveniente con le dimensioni del corpo con i muscoli tesi delle braccia, delle cosce, dei polpacci” e il corpo teso, nervoso, scattante dell’attore. Ossimoro che si fa mimesi: ecco la grandezza dello spettacolo “Aiace”. Un’interpretazione materica che non cede all’enfasi ma allo slancio, mai titubante e sempre all’erta, professionalità e fuoco: “il violento shock del genio” prendendo in prestito Louis Aragon su Ritsos. Lo Cascio in poco più di un’ora prende possesso del teatro, della tragedia. Si fa coro nell’onirico ripetere le iniziali del nome “Ai, ai, ai”: l’interiezione greca del dolore. Potremmo chiamarlo virtuosimo, lo chiamiamo mestiere. Come quando si appropria della musicalità e pare cantare le parole, perché se l’uomo soffre o perde la ragione la parola si allunga nella primordialità del suono. O si appropria della melodia di Ritsos: “Come siamo piccoli, Dio mio, piccoli di fronte al mondo infinito che si desta, di fronte alla luce calda immortale, e all’improvviso sentii rimpicciolirsi tutta la maledizione e il terrore della notte”. Il Novecento di Ritsos irrompe di incanto “il cuore umano è un’umida radice della terra, paziente, nascosta così profondamente, si avvicina la primavera: può darsi che germogli ancora” e di disincanto “ho dissipato le forze combattendo fantasmi e che ridano quanto vogliano… i greci un giorno si ricorderanno di me e se anche se non si ricorderanno che importa? a me importa quel che ho trovato perdendo”. Lo Cascio traduce la compassione e gli schizzi di ironia nel corpo che si piega o si contorce per accenni, nella voce che arriva fino al gemito e al pianto (vero) mentre la musica si fa talvolta quasi silenzio e diventa un’intima nenia .
Poi si smorzano i suoni e la luce proietta il blu sulle antiche pietre: avviene una frazione minima di tempo in cui il pubblico rimane fermo per meraviglia. Una frazione di silenzio fino a quel battimani con cui ho aperto il mio racconto. Chissà se le parole sono state quelle giuste: ma è difficilissimo dare corpo sonoro all’emozione. Tranne se si è un GUP Alcaro o quell’animale da palcoscenico di Luigi Lo Cascio.