Gabriele Marconi, giornalista e scrittore, già direttore responsabile del mensile Area, perché ha scelto la formula del monologo “2 Agosto 1980 – Orazione civile” (Edizioni Eclettica) per ritornare a chiedere verità sulla strage di Bologna e giustizia per i morti nella bomba?
“Ho deciso di scrivere questo monologo teatrale quando, durante conferenze e presentazioni, cercando di spiegare l’inchiesta che stavamo conducendo vedevo la gente, inizialmente attentissima, perdersi nella massa di dati, date, circostanze e nomi che andavo sciorinando. Dopo pochi minuti staccava o la spina e non capivano più niente. Così ho pensato di usare la tecnica del teatro civile, così da mantenere vivi l’interesse e l’attenzione fino alla fine. Un linguaggio semplice che consente a tutti di assimilare quella grande massa di dati, anche a chi non è un “tecnico”.
Processi e sentenze lasciano tante ombre. Quando è iniziato il suo lavoro di controinformazione prima con Area e ora con questo volume?
“Area era un mensile ma anche un progetto di impegno sociale ed esistenziale. E con Marcello de Angelis, prima di gettarci in quest’impresa, avevamo condiviso l’impegno militante negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Impegno di vita segnato proprio dal marchio infamante della strage di Bologna, che aveva visto il nostro ambiente politico usato come capro espiatorio. Con Area abbiamo scelto di continuare la battaglia per la verità per due motivi: uno d’onore e uno di dignità professionale, come dovrebbe essere per qualunque giornalista che si rispetti”.
Chi sono stati i protagonisti di queta ricerca della verità tra faldoni e archivi?
“Tutto è nato ed è continuato grazie alle enormi capacità di Gian Paolo Pelizzaro, senza alcun dubbio il più grande giornalista investigativo che abbiamo oggi in Italia. E che faceva parte integrante della squadra di Area“.
Il presidente emerito Cossiga chiese scusa per aver dato credito alla pista nera. Poi la magistratura ha preso un corso differente. Quali le tre macro-incongruenze nelle sentenze emesse finora dai tribunali?
“È difficile sceglierne solo tre… I processi che hanno portato alle condanne dei Nar sono un’unica, enorme incongruenza. A partire dal cosiddetto “supertestimone”, Massimo Sparti, totalmente inattendibile e smentito da tutta la sua famiglia. Arrivò a dire che Mambro e Fioravanti gli avevano detto di essersi travestiti da turisti tirolesi, con salopette di cuoio e cappello di feltro, per portare la bomba alla stazione… O il coinvolgimento di Luigi Ciavardini, suggerito da un’intuizione di Angelo Izzo, il folle plurimassacratore, che secondo i giudici venne confermato da una telefonata fantasma, che tutti i diretti interessati smentiscono. Fino al famoso depistaggio operato da Musumeci e Belmonte, ai vertici del Sismi, che coinvolgeva direttamente i Nar di Fioravanti e che, ancora oggi, viene presentato dai giudici come un depistaggio “a favore” dei Nar. Pazzesco”.
Una vasta area dell’opinione pubblica considera sulla strage Fioravanti, Mambro, Ciavardini e Cavallini innocenti. Sono prigionieri del Lodo Moro?
“Sono prigionieri innanzitutto della pregiudiziale politica. Ma il Lodo Moro è al centro del problema, come racconto nel mio libro”.
La pista mediorientale? Perché è stata giudiziariamente accantonata?
“Per gli stessi motivi per cui non si è mai voluto indagare su riscontri accertati, scegliendo di dare invece una comoda risposta politica contro l’estrema destra. E la cosa andava bene al governo e ai servizi segreti che dovevano ristabilire i rapporti con l’Fplp dopo la rottura del patto conosciuto come il Lodo Moro. Un contesto complesso, che nella mia “Orazione civile” viene raccontato con un linguaggio semplice e chiarissimo”.
Pier Paolo Pasolini diceva “Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché…”. Si arriverà alla ricostruzione del puzzle complesso dell’Italia di quegli anni?