Rivisitare avvenimenti appartenenti ad un passato lontano ma non ancora del tutto archiviato non è un’operazione agevole, specialmente se – quando certezze ed illusioni di un tempo vengono ridimensionate oppure svaniscono ed i contesti mutano non solo sotto l’aspetto spazio-temporale – a scegliere di “riannodare” i fili del discorso riguardanti una stagione già esplorata con lucidità, rabbia e disincanto è un osservatore che, non riconoscendosi in una generazione che stava per entrare in crisi d’identità, non visse quegli eventi come parte attiva.
Pubblicato da La Vela nel 2018, “L’infinito sessantotto: da Macondo e P38 alla II Repubblica” è il “sequel”, per utilizzare un gergo cinematografico caro all’autore Stenio Solinas, dell’altro suo pamphlet “Macondo e P38”, uscito nel 1980 e riproposto come appendice del primo saggio.
Protagonista è il sessantotto come tipica rivoluzione “da salotto”, via di mezzo all’italiana dai tratti ben poco rivoluzionari destinata, proprio perché tale, a lasciare tracce durature non dal punto di vista politico, sociale ed economico bensì nella società civile e nei costumi, seppur in maniera confusa e contraddittoria. Fu il primo vero corto-circuito di un processo di modernizzazione monco, guidato da una classe politica democristiana che non rispecchiava identità e/o ideologie, ma teneva insieme tutti e nessuno in un coacervo di interessi, corporazioni, clientele.
Allo stesso tempo si trattò della consacrazione di quello che Leonardo Sciascia aveva definito “cretinismo di sinistra”, alludendo alla formidabile ondata di conformismo per cui diventò impossibile, in Italia, non avere simpatie per i comunisti; ad esso fece da contraltare il “cretinismo di destra”, che si illudeva di poter opporsi alla contestazione (ai propri albori cavalcata anche da parte della gioventù neofascista) rifugiandosi in valori e codici di comportamento formali che stavano saltando oppure erano già tramontati.
Solinas smaschera i vizi, il decadimento morale e le anomalie di una classe dirigente – non solo politica – che procrastinava all’infinito le proprie scelte e di un paese che “deragliava” nella direzione di un appiattimento dei valori verso il basso, specchio del fallimento di uno Stato che ormai da trent’anni non riusciva ad acquisire, al netto di esibizioni retoriche, la parvenza di una piena democrazia.
La denuncia della povertà ideale di studenti che contestavano l’ordine costituito e la borghesia (dalla quale, in gran parte, provenivano e che avrebbero riabbracciato in massa negli anni del “riflusso” dal politico al personale), elogiavano un permissivismo che gli si sarebbe ritorto contro reclamando, senza mai accollarsi i doveri, il diritto di ottenere “tutto e subito” e si proponevano come “avanguardie” di una classe operaia che a stento conoscevano, si accompagna a quella dell’avventurismo politico. Sono messe a nudo, infatti, le contraddizioni di coloro i quali, chiudendo gli occhi di fronte a tragedie come quella della primavera di Praga e rinnegando sottobanco gli ideali di libertà dalle dittature che rivendicavano ipocritamente, vaneggiavano l’avvento di una società foriera del progresso, idealizzando una dottrina – il marxismo ed i suoi “derivati” – che veniva innalzata addirittura a scienza, spesso al costo di contraddirsi imbastendo “campagne” volte a sconfessare il leninismo e ad interpretare gli avvenimenti storici ribaltando incredibilmente prese di posizione precedenti.
In un contesto totalmente avulso dalla cruda realtà della crisi economica ci si ostinò, a lungo e ai più svariati livelli, ad “appiccicare” alle brigate rosse l’etichetta di “sedicenti”, a minimizzare i crimini dei terroristi definendoli “compagni che sbagliano” e a dichiarare che essi costituivano parte integrante “dell’album di famiglia” del PCI.
La “mistificazione dell’impegno” messa in atto dai giovani e dagli “intellettuali operaisti” passò attraverso la creazione di un linguaggio infarcito di luoghi comuni e di certezze apodittiche, la proposizione di comportamenti (compresi gesti, divertimenti e svaghi) meccanici e vuoti, la ripetizione stanca e senza creatività di rituali ruotanti attorno alle personali “diagnosi” sulle cause del fallimento della rivoluzione, ferma restando l’incapacità di fondo di elaborare una vera e coerente vita alternativa, che ci si illudeva di perseguire richiamandosi a molteplici modelli intellettuali: Dada e De Sade, il marxismo utopico, la beat generation e lo psichedelico, fino ai miti del maoismo e dello zen.
Il decennio che si concluse nel ’77 con l’ascesa del movimento degli Indiani Metropolitani certificò la crisi della categoria del “politico” tradizionalmente intesa, mise da parte i vecchi miti, sindacati compresi; si rifugiò nelle varie forme dell’espressione artistica (dal teatro all’animazione, dal disegno al linguaggio grafico e al fumetto); si illuse di creare una comunità diversa, più libera e spontanea e al tempo stesso di rinnovare il modo di fare politica; soprattutto, fu contraddistinto da una “guerra civile generazionale, strisciante anche se non dichiarata”, sanguinosa ed aberrante – in parte espressione del mito della violenza anni addietro teorizzato da Sorel – che non ebbe eguali in nessun altro paese europeo e che rimanda, come osservato da Franco Ferrarotti, ad “un’angoscia della piccola e media borghesia, che si sentiva schiacciata tra grande borghesia capitalistica e proletariato organizzato nelle strutture della sinistra ufficiale…che non hanno tenerezza verso il deviante, il soggettivo, il diverso”.
Il sessantotto sopravvive non solo tra i baroni universitari ancora più potenti di quelli che defenestrarono, contestandoli, quando guidavano i movimenti studenteschi, tra i vertici degli organi di informazione che da autonomi snobbavano e dai quali oggi veicolano le “buone novelle” della liberal-democrazia in realtà agonizzante per consunzione, tra i politici che hanno costruito la propria carriera partendo dai gruppi extra-parlamentari che avrebbero voluto abbattere quell’assemblea così come altre Istituzioni.
E’ un fenomeno infinito perché è dura a morire la convinzione di chi – prototipo di neo-settantenni ignari di non attirare il benché minimo interesse neppure dei giovani più studiosi – ritiene che quella sia stata un’epopea “mitica”, una causa di cui tutti – intellettuali in testa – si sentivano “reduci”, pronti ad “infiammarsi” nel ricordo, pur essendo stati pochi coloro i quali combatterono veramente, con onestà e buona fede; ma soprattutto perché i modelli affermatisi allora, dall’educazione sessuale all’università di massa, dal divorzio all’aborto, dalla fine della famiglia tradizionale alle conquiste del femminismo degenerate nelle distorsioni riconducibili alle teorie gender, sono consolidati nello spirito del tempo come status quo, tra coloro i quali sono perfettamente integrati nell’ordine imposto dai processi della globalizzazione e da un pensiero unico e omologante, che ha atomizzato la società in nome e per conto degli interessi, effimeri e contingenti, dell’individuo.
*”L’infinito sessantotto. Da Macondo e P38 alla II Repubblica” di Stenio Solinas, edito da La Vela
Articolo da incorniciare, spero di poter comprare questo libro e leggermelo. Complimenti all’autore.
“Fu il primo vero corto-circuito di un processo di modernizzazione monco, guidato da una classe politica democristiana che non rispecchiava identità e/o ideologie, ma teneva insieme tutti e nessuno in un coacervo di interessi, corporazioni, clientele.”: la pate più bella e che condivido di più di questo articolo. Maledetti democristiani, puttane politiche che per le poltrone andavate contro il vostro elettorato, conservatore e cattolico, quale era la maggior parte dell’Italia prima del Sessantotto.
“Solinas smaschera i vizi, il decadimento morale e le anomalie di una classe dirigente – non solo politica – che procrastinava all’infinito le proprie scelte e di un paese che “deragliava” nella direzione di un appiattimento dei valori verso il basso, specchio del fallimento di uno Stato che ormai da trent’anni non riusciva ad acquisire, al netto di esibizioni retoriche, la parvenza di una piena democrazia.”: e infatti, anche se le elezioni le vincono quelli del centrodestra, comanda sempre la sinistra.
Diciamo che il sessantotto portò finalmente diritti ad una classe operaia che fino ad allora era tenuta in condizioni di servaggio ; allo stesso modo distrusse i principi e i valori di quella che era la società italiana (l’ultimo Pasolini se ne accorse bene).I democristiani non erano senz’altro peggio dei missini, che non per nulla si sono trovati benissimo col magnate Berlusconi; quello che si portava le minorenni in casa per le cene eleganti . L’aborto (io sono contrario) era praticato anche prima del referendum , il divorzio c’era ma era appannaggio solo della borghesia. Il sessantotto non ha fatto altro che trasferire i comportamenti della classe dirigente anche al popolo .
Contrariamente a Gallarò (beato lui!) io il ’68 l’ho vissuto tutto, essendo entrato all’Università (e lavorando contemporaneamente) proprio in quell’anno. Fra i tanti ricordi, per lo più di ripulsa verso ciò che vedevo e vivevo, mi rimane di quegli anni una sensazione di profonda intolleranza. Intolleranza feroce verso tutte le ‘destre’, tutte considerate ‘fasciste’ e, all’interno delle sinistre, verso il PCI e soprattutto il PSI, osteggiati, spranga in mano e P38 in tasca, per il loro ‘moderatismo’ dalle frange dell’estrema sinistra, più o meno terroristica e dedita alla lotta armata. Il tragico carnevale degli anni ’70, la decisione personale di lasciare prima l’atmosfera plumbea di Torino, poi l’Italia, sia pure al servizio dello Stato… Il rapimento e l’uccisione di Moro furono, paradossalmente, una boccata d’ossigeno, la speranza che finalmente lo Stato facesse qualcosa… La classe operaia ne ebbe scarsi benefici concreti. Per essa aveva fatto più Vittorio Valletta, con l’espansione della Fiat, dell’economia industriale, con stipendi elevati e servizi sociali, che tutti i contestatori figli di borghesi arrivati… Le analisi di Gallarò, tagliate con l’accetta, hanno il difetto di parlare di ciò ch’egli non ha vissuto o ha interpretato solo partendo dalla fine, lasciandosi condizionare da dettagli sostanzialmente ininfluenti (le ‘cene eleganti’ di Berlusconi ecc.)… Il vero sconfitto del ’68 e seguiti fu lo spirito liberale. Prevalse il liberticidio, in dosi massicce, altro che il “proibito proibire”… Pasolini mi faceva schifo anche allora…
Mia madre era operaia (ha cominciato a 15 anni nel 1963), mio padre di dieci anni più vecchio era emigrato in Svizzera a diciotto anni prima di diventare artigiano nell’edilizia. Prima dello statuto dei lavoratori in Italia i diritti dei lavoratori erano ridotti al minimo, avevi paura di perdere il posto di lavoro epr qualsiasi scicchezza.. Dopo il 1968 e l’attribuzione dei giusti diritti ci fu un eccesso nell’altro senso (assenteismo, rifiuto del lavoro ecc.).
Io ho iniziato a lavorare all’Olivetti nel 1968. La mia percezione era il contrario di quella evocata da Gallarò. Forse nelle piccole imprese…
Gallarò. Credo che tu ti sia fatto ‘intortare’ dalla propaganda sinistrorsa. Prima del ’68 i diritti dei lavoratori c’erano. Poi vennero quelli dei cialtroni, assenteisti, pseudo-rivoluzionari, rompiballe…
Prima del Sessantotto c’erano delle cose sbagliate, specie per quel che riguarda i diritti sociali dei lavoratori. Ma bisognava per l’appunto correggere le cose sbagliate, non demolire tutto ciò che c’era prima, a cominciare per l’appunto dai valori tradizionali, sintentizzati nel trinomio Dio-Patria-Famiglia, che una nota parlamentare del PD ha definito “vita de mmerda”.
Uno dei danni più rilevanti il Sessantotto li fece su scuola e università. La legge Gentile fu la migliore riforma sull’istruzione che abbiamo mai avuto, ma purtroppo la DC dell’apertura verso tutto e tutti, ha accolto le istanze di quattro parassiti di estrazione borghese che aderirono al marxismo, e così facendo la scuola é diventata un diplomificio e l’università accessibile a cani e porci. Con gravi danni per l’agricoltura, l’artigianato e l’industria, che perdevano sempre più manodopera, soprattutto dopo gli anni ottanta.
Werner. La riforma Gentile era già stata accantonata dal Fascismo in favore della Legge Bottai, non entrata in vigore per la guerra. Prevedeva la Scuola Media unica, drastica riduzione del latino e le Applicazioni Tecniche, come quella del ’62… Dio-Patria-Famiglia non era il motto di nessuno. Anche Petain usò Famille, Travail, Patrie… Col Fascismo la scuola superiore sarebbe comunque diventata di massa…
Altro che residuati sessantottini. Gli italiani le palle le han perse da 17 secoli. Per il nuovo Lockdown in Serbia, i cittadini invece lì protestano: scontri, roghi e auto della polizia danneggiate.
Intanto l’articolo sul gatto arrostito è stato depennato, a quanto pare.Avrei voluto aggiungere dell’altro.Evidentemente anche Barbadillo si sta’ adeguando.Altro che innalzare il drappo piratesco e libertario Giovanni Vasso!!