Dopo la recensione di Renato de Robertis, dedicata alle “Le scuderie dell’Occidente. Trattato morale” di Jean Cau, c’è ora l’occasione per portare avanti il discorso sullo scrittore francese scrittore. Presentiamo allora la nota introduttiva di Cau, al suo libro “Toro” (Iduna Edizioni, 2019), che, nel 1960, fissava temi critici di sorprendente attualità. Nel testo emergono idee sul concetto di egemonia culturale, sulla visione stereotipata dell’uomo di sinistra, sulla libertà dell’artista.
Siamo convinti della ricchezza di un patrimonio filosofico, letterario, artistico, di certo alternativo, da nominare come vogliamo, ossia conservatore, anti-moderno, nazionale, tradizionalista, cattolico o pagano; un patrimonio storicamente danneggiato da un potere culturale conformista e istituzionalizzato che, come scrive Cau, “apre tutte le porte”, occupa tutte le poltrone, siede su tutte le cattedre.
Prima di tutto, la nota di Cau invita a superare il concetto di arte politica. La critica militante continua a trattare scrittori e pittori attraverso obsolete categorie conoscitive; ma, per questo, sappiamo che la bellezza non può essere ingabbiata in un recinto politico-culturale, in quanto un quadro è bello per il linguaggio e i colori, non perché il suo pittore fu iscritto al Pci.
I colori acidi del compagno Renato Guttuso dicono ancora la bellezza siciliana; il linguaggio segnico del comunista Emilio Vedova sogna sempre un altro mondo; e, come scrive Cau, una tela di Piet Mondrian rimane un’opera d’arte che non potrà mai essere una “degenerazione capitalista.” (a cura di Marco Altavilla)
Nessuno pensa di definire il calcio uno spettacolo fascista e di affibbiargli sulle spalle tutti i peccati della creazione. Si gioca al calcio in Inghilterra (paese democratico), in Svezia (idem), nell’Unione Sovietica (paese socialista), in Francia e persino in Svizzera. Lo si gioca anche (e spesso meglio che altrove) nella Spagna dove, nel momento in cui scrivo queste righe, regna il generale Franco. Mi avete capito: attribuire la qualifica di “fascista” al gioco del pallone non vuol dire nulla.
Ma la corrida, si sostiene, sarebbe invece uno spettacolo essenzialmente fascista. Il sangue, la virilità, la morte, il sesso, insomma tutti gli ingredienti che, in dosi diverse, ne fanno parte, rileverebbero la loro natura perversa se esaminati ai microscopi perfezionatissimi della sinistra. A dir il vero noi ci siamo fatti sino a poco tempo fa un’immagine stereotipata dell’uomo di sinistra che lo stalinismo ha contribuito ad alimentare. L’uomo di sinistra era una specie di santo, più virtuoso di Catone, più dolce di Gesù, bevitore d’acqua, fermo nei suoi propositi, deciso e al tempo stesso misurato nei suoi atti, il cuore colmo d’amore per l’umanità e di democratico orrore per la violenza. Vestito di bianco, il viso disteso, la voce calma, si chiamava Stalin (e così ci apparve in un film sovietico) coltivava le rose. In sostanza la sinistra incarnava la virtù, la destra il vizio. A sinistra si leggeva Marx, si facevano manifestazioni per la pace, si firmavano petizioni contro la bomba atomica o per la liberazione dei popoli oppressi, si andava a ballare compostamente nei parchi cittadini alla festa dell’Unità e si discutevano le proprie idee. A destra si leggevano i libri scritti dalle “iene dattilografe” (definizione di Zdanov), si fabbricavano le bombe atomiche, si sfruttavano i popoli sottosviluppati frustandoli a sangue, ci si lavava i piedi nello champagne e si sostenevano tesi cretine. Tutto era bianco o tutto era nero. Virtù o vizio. Gettata su questo letto di Procuste, la corrida fu presto costretta a vomitare la propria natura: era fascista. Era barbarie, rito, cerimonia. Era morte e passato e dunque destra, giacché da parte di sinistra tutto era progresso e vita. O santa semplicità, quante asinerie hai fatto pronunciare dai cuori puri con un tono che non ammetteva replica!
Non venite a dirmi che tutto è politica. Basta grattare una superficie qualsiasi fino a consumarsi le unghie e si trova la politica. Lo so, e non dubito che un vizioso possa servirmi su un piatto d’argento una rigorosa analisi marxista del sentimento della natura contenuta (tanto per fare un esempio) nelle opere di J.J. Rosseau. A condizione di cambiare ora la serratura, ora la chiave, il marxismo apre tutte le porte. So benissimo come si fa, giacché mi sono divertito per anni, nel corso di interminabili discussioni, a forzare le torri dov’erano rinchiusi i “problemi”. Niente di più facile che tagliare un cappello in quattro nel senso della lunghezza, o assediare la realtà con un esercito di parole. Purtroppo, quando la realtà si ridesta e fa una sortita, l’esercito di parole fugge in rotta lasciando sul terreno i cadaveri degli argomenti, delle analisi, delle sintesi, delle affermazioni e dei giudizi categorici. Anche questo non c’è bisogno di venirmelo a dire. (…) se il balletto (unica eccezione) ha resistito ai bisturi di Zdanov, e se in Spagna la corrida (che, vi ricordo, è un’arte) non sta poi tanto male, dipende dal fatto che queste manifestazioni artistiche si sviluppano in una sfera che sfugge alla politica. Un quadro di Mondrian, una partitura di Pierre Boulez, una scultura di Moore, un poema di Tzara possono sembrare, a chi ha il cervello cubico, prodotti della cosiddetta degenerazione capitalistica. Ma un entrechat dell’Ulianova è socialista? Ma una veronica di Ordonez o una stoccata di Ostos, quale cervello cubico oserebbe denunciarli come prodotti della degenerazione capitalista? Qualcuno mi dirà: “Non è questione di veroniche o di stoccate, ma dello spettacolo della tauromachia nel suo insieme che è una cerimonia erotico-funebre, mito e alienazione. Dunque via, nella foga!” Replicherò che non si può parlare con tanta superficialità della (e lasciate che pronunci la gran parola, ma…) bellezza. Rilevando fino in fondo il mio pensiero, porrò alcune domande capaci di mettere in imbarazzo (tocca a me questa volta) l’uomo di sinistra.
Domande: E se tutta la bellezza del mondo fosse “fascista”? In altri termini, e affinché mi si dia retta senza lanciare grida di raccapriccio: e se ogni artista non avesse altro scopo che interrogare sul tema della morte la sua angoscia e totale solitudine? Se il Cremlino che il signor Kruscev ci mostra con tanto orgoglio a Mosca, se quella cattedrale di Reims che noi gli mostriamo con tanto orgoglio in Francia fossero altrettante prove della morte che attanaglio i loro costruttori? E se ogni forma di bellezza fosse prima di tutto e soprattutto tragica? E se ogni opera d’arte dipinta o scolpita non fosse altro che il ritratto o la statua mille volte ricominciata della morte? E se ogni musica e ogni poesia ci ripetessero costantemente, coi loro mortali accenti, che vivere è follia? E se tutta la bellezza di questo mondo non fosse altro che il presentimento della sua imminente ed eterna morte. (…) E se ogni musica fosse un canto funebre? E se ogni poema fosse una preghiera? E se l’arte fosse tutta sacra? Con me, che credo a queste sciocchezzuole, serve poco definire “fascista” la tauromachia, giacché o tutto ciò non ha un significato, oppure vedere qui sopra…
magnifico testo di Jean Cau, che con inimitabile eleganza di stile e di pensiero e fine ironia mette alla berlina gli schematismi culturali della sinistra.