Rileggo le poesie di Vittorio Bodini (Bari 1914 – Roma 1970) in una vecchia edizione della Besa senza apparati critici e impreziosita da ventiquattro disegni a china del poeta dove l’intreccio di linee tondeggianti, le macchie, i ghirigori prendono il posto delle figure o vi accennano. E già questi disegni ci dicono qualcosa dell’autore, quasi un suo voler avvolgersi nei simbolismi, un andare e tornare, un dire e non dire. Nato a Bari, ma di famiglia e di tradizione salentina, studioso e traduttore dei grandi poeti e scrittori spagnoli, tra cui Lorca e Cervantes, Bodini insegnò letteratura spagnola all’Università di Bari e visse alcuni anni in Spagna. Non pubblicò molto in vita: La luna dei Borboni nel 1952, cui si deve la sua notorietà, Dopo La luna nel 1956 e Metamor (dedicato alla figlia Valentina) nel 1967. A queste raccolte vanno aggiunte due raccolte non pubblicate Zeta (1962-1969) e Civiltà industriale o poesie ovali (1966-1970) e vari altri testi inediti. La lettura dei suoi versi ci prende, ci affascina per la ricchezza delle immagini, per la forza evocativa delle parole e dei simboli, per quell’atmosfera sonnolenta, mitica, di un Sud vissuto e sognato, amato e insieme respinto, che i suoi versi sanno sapientemente creare:
«Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.
Un bisbigliare fitto, di mille voci,
s’ode lontano dai vicini cortili:
tutto il paese vuole far sapere
che vive ancora
nell’ombra in cui rientra decapitato
un carrettiere dalle cave. Il buio,
com’è lungo nel Sud! Tardi s’accendono
le luci delle case e dei fanali.
Le bambine negli orti
ad ogni grido aggiungono una foglia
alla luna e al basilico.»
Nella raccolta La luna dei Borboni “si sente ancora l’influenza dell’ermetismo, ma campeggiano vivide le immagini e i colori di un Meridione atavico e nativo che trasfigurano i puri dati oggettivi del paesaggio, degli uomini e del folclore in un barocchismo onirico ed estatico reso un po’ dolente e amaro dal raffronto col presente” (Marco I. de Santis, “Il sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa”. Vittorio Bodini, gitano pugliese, in La Vallisa, anno XXI n. 63, dicembre 2002).
Emblematica è la splendida poesia che dà il titolo alla raccolta:
“La luna dei Borboni
col suo viso sfregiato tornerà
sulle case di tufo, sui balconi.
Sbigottiranno il gufo delle Scalze
e i gerani – la pianta dei cornuti –
e noi, quieti fantasmi, discorreremo
dell’unità d’Italia.
Un cavallo sorcigno
camminerà a ritroso sulla pianura.”
Come non vedere in quel “cavallo sorcigno” che cammina a ritroso sulla pianura una larvata critica ai modi con cui si è realizzata l’Unità d’Italia? E come non vedere in quella luna dei Borboni “col suo viso sfregiato” meno la denuncia dell’immobilismo del Regno delle due Sicilie che il rimpianto di un luogo favoloso e mitico, di una geografia esistenziale? La critica ha spesso messo in rilievo l’ambivalenza emotiva di Bodini verso la propria terra, verso un Sud intristito e fermo, che sembra tagliato fuori dalle grandi correnti della storia e che tuttavia resta un luogo dell’anima, capace di dare senso all’esistenza. Basti citare questi versi: «Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare.»
Sennonché, proprio nel barocco leccese il poeta scopre l’ispanità, il comune sentire tra Salento e Spagna. Ne risulta una poesia che «è un felice impasto tra barocco salentino e simbolismo spagnolo» (Daniele Giancane). E non a caso in una delle poesie successive di Dopo la luna troviamo scritto: “Cordova è una dolce tempesta / di bianco verde e nero e in quell’accordo / di calce e di limoni e di freschi cancelli / trovo il mio Sud ma con più aperta coscienza / con più aperta tristezza e più valore.”
Alle poesie brevi e scintillanti della prima raccolta seguono le poesie più lunghe e più discorsive di Dopo la luna, dove paiono accentuarsi la solitudine, la pena di vivere, le difficoltà del presente, come nella magnifica “L’allodola e la luna”:
«L’allodola e la luna sole nel cielo:
lei sorta appena e il passero spaurito
dal pino nero e i silenziosi spari
dei finti cacciatori in mezzo al grano nascente.
Nessuno l’attendeva. Nessuno attende.
Volava di traverso con tutto il cielo in gola.
Sotto di lei crollavano i papaveri,
un’ombra cancellava coi grossi pollici
il dolce vino e il viola del tramonto.
In una stanza in fondo, la memoria,
lasciata ai suoi più torbidi solitari,
di te non s’informava, fine d’un grande giorno:
giorno da meditare
davanti a una finestra, col silenzio alle spalle.»
E insieme all’angoscia per lo scorrere veloce del tempo si affaccia già il presagio dei guasti dell’industrializzazione, il rimpianto della civiltà contadina che sta scomparendo, come nell’ultima lirica della silloge intitolata non a caso “Troppo rapidamente”.
«Chi si ricorderà dei limoni / reclusi nei cortili con le conche / di pietra e i gatti famelici? / E delle rosse barbe dei gerani ai balconi?», si domanda accorato il poeta. E constata con amarezza: «Siamo in un’età / di grandi riepiloghi. / O terribili somme, fra poco / come le braccia di una croce, come le pagine / d’un libro Oriente e Occidente / si chiuderanno su noi. / L’Oriente senza Oriente / non avrà più mistero / e l’Occidente non ha più avventura.» Eppure, ricorda a se stesso, «Il Sud ci fu padre / e nostra madre l’Europa.»
L’itinerario esistenziale e poetico di Bodini, che affonda le radici nella civiltà contadina sfocia poco alla volta nello smarrimento e nella perdita di senso, dovuta in gran parte ad una crescita economica indiscriminata e disordinata. «Guardingo se non ostile è il poeta verso il “boom” economico degli anni ’60, del quale intravede lucidamente i pericoli sociali e umani, mostrando evidente il “sospetto” che tutto non sia che un grande imbroglio» (Gianmario Lucini). Lo testimoniano le raccolte Metamor e La civiltà industriale o poesie ovali, nelle quali il linguaggio poetico si fa più involuto, i simboli meno trasparenti, e si nota un ritorno all’ermetismo. Del resto, cos’altro è l’ermetismo se non una risposta alla crisi, al disagio di vivere in un certo tempo storico e a certe condizioni? «Io fuggo da ogni cosa delicatamente», dichiara Bodini nella lirica Canzone semplice dell’esser se stessi. E nell’altra lirica Nelle spire del boom scrive:
«Presi nelle spire del boom ne gustiamo anche noi
gli alti palazzi e le piante nane
piume serpenti chiomati sotterfugi intimi.
L’astrattismo ci punse un dito come una rosa neoclassica.
Tacevano i cani di calce e la civetta veloce
e tutto ciò che un tempo avevamo dentro capovolto come in un negativo.»
Il titolo dell’ultima raccolta non pubblicata La civiltà industriale o poesie ovali è sibillino. Perché poesie ovali? Allude forse il poeta alla possibilità di recuperare ciò che si è perduto con la civiltà industriale? Ad una frattura che può essere sanata?
«Solo allorché dai salici avremo appreso
a carezzarci lentamente
e dalla luna a scommettere contro di noi
potremo dire d’aver vissuto due volte.»
Sono questi gli ultimi quattro splendidi versi dell’ultima poesia intitolata significativamente Sogno. La ricerca umana e poetica si conclude con uno scacco. L’uomo non può vivere due volte, non può ricongiungere la fine all’inizio. Non è questo il suo destino. E tuttavia è bello sognarlo.
Mi spiace essere lezioso, ma il parere di Giancane, molosso a guardia della microflora del sottobosco pugliese, è di seconda mano: è un’idea del compianto e grande Oreste Macrì, accennata (e in varie occasioni ripresa con maggior dettaglio) nella prefazione dell’oscar mondadoriano, che riuniva l’opera omnia di Bodini e poi andato, inspiegabilmente, al macero. Ripresa per certo da altri autori, ma con la cortesia di ricordare la fonte.