
C’è un’Italia da “ricostruire”. Non è solo quella del dopo Covid19, soffocata dalla burocrazia, dalla crisi economica, dai ritardi di un governo pasticcione, e costretta a fare i conti con un relativismo etico, che ha reso evidenti le sue contraddizioni, tra famiglie disgregate, gli altissimi costi della parcellizzazione sociale, nonni scomparsi, anziani ghettizzati. C’è un’Italia materialmente da “rifare”: l’Italia delle periferie, eredità degradata di una stagione (gli Anni Settanta-Ottanta) del dopo boom, a cui offrì le sue ambiziose “soluzioni abitative” un’architettura imbevuta di ideologia socializzatrice (ispirata dai casermoni d’oltre cortina).
Tra le pessime eredità di certa cultura “impegnata”, ma – di fatto – “palazzinara” (seppure in alleanza con le immancabili coop amiche), ci sono anche i quartieri periferici di molte città italiane: monumenti al degrado, ormai indifendibili perfino da parte di chi li ha voluti, progettati e costruiti. Ed allora ben venga chi ha deciso di buttarli giù, per poi riprogettare spazi a misura delle effettive esigenze di chi quelle abitazioni dovrà occuparle.
Il caso Genova
E’ accaduto, qualche giorno fa, a Genova , dove una struttura-simbolo dell’edilizia pubblica degli Anni Ottanta (la cosiddetta “Diga di Begato”, costituita da un muro di palazzoni, da 15-20 piani ciascuno, per un totale di 521 appartamenti) è stata svuotata dalle ultime 374 famiglie che l’abitavano, trasferite in altre case popolari esistenti in città, per essere finalmente abbattuta e fare così posto ad una cinquantina di alloggi distribuiti su palazzine da quattro piani. All’epoca della costruzione di questo autentico eco-mostro a guidare la città c’era una giunta di sinistra (Psi, Psdi, Pci) organica a quella regionale, a guida social-comunista. Altri tempi per una Genova ex rossa, oggi guidata dal centrodestra, con il Sindaco Marco Bucci, ed una regione dello stesso colore politico, presieduta da Giovanni Toti.
Quel che conta e che va sottolineato, oltre all’indubbio valore amministrativo e sociale dell’operazione di sgombero-ricostruzione, è la sua valenza metapolitica e culturale. A sostenere la sua costruzione ci fu, all’epoca, in prima fila, il mondo dell’intellettualità egemone e di sinistra, ancora illusa delle sorti e progressive della sua visione ideologica. Un nome tra i tanti Edoardo Sanguineti, docente di letteratura italiana, poeta d’avanguardia, deputato del Pci, che alla Diga andò ad abitare, convinto – in piena coerenza – di vivere direttamente uno straordinario esperimento di integrazione sociale. In realtà fu un fallimento e proprio per la visione utopistica che stava alle spalle del progetto: l’idea di creare una comunità coesa, naturalmente disposta a vitalizzare i percorsi comuni (i lunghi corridoi interni), trasformando i moduli abitativi nel regno della società di massa piuttosto che della personale qualità del buon vivere.
L’idea – del resto – era tutt’altro che una novità. A fallire era stata già l’esperienza, realizzata negli Anni Cinquanta, dell’Unitè d’Habitation de Marseille di Le Corbusier, tentativo, tutto ideologico, di frantumare l’architettura tradizionale, con la disgregazione dell’unità familiare, realizzata attraverso una ridistribuzione degli spazi finalizzata a favorire la convivialità sociale.
Alla prova dei fatti l’esperienza genovese non ha retto sul campo, creando, al contrario, forme di disagio, di emarginazione, di abbandono, a cui, nel corso degli anni, i vari tentativi di riqualificazione urbana non hanno sortito alcun effetto.
Ora, con l’abbattimento, si pone fine allo scempio abitativo e nel contempo all’esperimento sociale, guardando – ci auguriamo – alla qualità delle nuove costruzioni, più contenute negli spazi, non massive, lontane da una logica concentrazionaria di stampo sovietico. E dunque in grado di rispondere veramente ai bisogni di chi li abiterà.
Fine del gigantismo abitativo
D’altro canto oggi il gigantismo abitativo non funziona più. Né l’idea comunitaria può funzionare senza essere alimentata da una comune identità e da un ordine sociale, in grado di integrare attività produttive, commercio, abitazioni. Com’era proprio dei vecchi borghi e come avveniva, un tempo, nei centri storici delle città, prima che l’ondata “progressista” li svuotasse. Voltata pagina, occorre ora tornare a ripensare alle città e alle aree cosiddette “periferiche” guardando al bene di chi dovrà abitarle piuttosto che agli sperimentalismi ideologici: una formula semplice, ma che diventa strategica non solo a Genova, ma a Scampia, Ostia, Corviale, Pioltello, allo Zen, al Moi di Torino. Qui si gioca un pezzo del futuro d’Italia. Prima a colpi di piccone e poi per ricostruire, non solo nuovi quartieri, ma un po’ di speranza per chi le abiterà.
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Costruire le case popolari negli anni cinquanta e sessanta era inevitabile, visto che la popolazione era in continua crescita e ogni famiglia italiana era composta in media da due genitori e almeno tre figli piccoli. Che poi dal Nord al Sud del paese ci sono stati numerosi episodi di speculazione edilizia, è vero ed è un altro discorso. E le speculazioni edilizie non si verificarono solo con le costruzioni di palazzoni dell’edilizia popolare, ma pure di quella residenziale privata. A Nord e nel Centro l’edilizia popolare era in mano a palazzinari e cooperative legate al PCI, nel Sud erano palazzinari culo e camicia con la DC. In molti casi però il sacco edilizio era dovuto principalmente a quella delle residenze private, perché venivano costruite nei centri delle città, spesso deturpandoli in contrasto con le caratteristiche architettoniche degli edifici esistenti. E ciò succedeva perché i comuni adottavano dei PRG che non tenevano minimamente conto delle tutela dei beni architettonici storici, anche perché non esisteva una legge nazionale in quel senso. Ci fu un tentativo di farla, ma il PLI e le sinistre si opposero. Le case popolari almeno venivano costruite in aree periferiche dove esistevano edifici rurali e di scarso valore architettonico, e su terreni improduttivi.
Il caso di Genova è certamente assurdo, perché parliamo di una città che da 50 anni registra un calo demografico costante e più accentuato che altrove, per cui costruire altri palazzi e cementificare non ha alcun senso. Come suggerisce il titolo l’articolo occorre una politica di rigenerazione urbana dove bisogna demolire per ricostruire e non più cementificare.
L’architettura è ideologizzata. Ma le tematiche urbanistiche son troppo delicate per lasciarle nelle mani di architetti e sociologi ‘politically correct’… La cementificazione, e l’abbiamo visto anche in Spagna negli ultimi 50 anni, è il frutto di convergenti interessi.
Difficile opporvisi se non in nome dell’estetica e della razionalità, contro ogni ‘brutalismo’ architettonico. Ma soprattutto dovrebbe passare un’idea. In Italia possono vivere in un sostanziale, decente equilibrio ecocompatibile, 45-50 milioni di persone, non i 70 ai quali si arriverà presto con la politica farlocca delle porte aperte al Lumpen non qualificato d’Africa. Certo, in modo graduale per i riflessi previdenziali ecc. E pensando, comunque, ad uno Stato non onnipresente, non assistenzialista. E ad una riscoperta cultura del lavoro, altro che movidas, aperitivi, droghe, fancazzismo di massa, redditi di cittadinanza…
Per troppo tempo in Italia ha pure avuto fortuna la moda della “seconda casa” al mare o in montagna, fenomeno molto più evidente da noi che in Germania o nei Paesi nordici. Distruggendo oltretutto le potenzialità di un’industria alberghiera per ‘famiglie’, come esisteva, con le sue pensioni che offrivano cibo sano ed abbondante!
concordo al 100% con Mario Bozzi Sentieri