Non è un bel compleanno per il sistema regionale italiano. A cinquant’anni dalla sua nascita (la legge sui “Provvedimenti finanziari per l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario” è del 16 maggio 1970), il regionalismo “all’italiana” mostra tutti i segni di una cattiva crescita e di una vecchiaia malandata. Al punto che perfino i suoi estimatori storici sono oggi critici nei confronti del regionalismo, messo duramente alla prova, con l’emergenza sanitaria, dai conflitti di competenza tra gli Enti locali e lo Stato. Più che un anniversario da festeggiare e rivendicare è un de profundis per quella che, negli Anni Sessanta, è stata la riforma costituzionale principe del neonato centrosinistra.
L’iter dal 1948
In realtà l’ottava disposizione transitoria della Costituzione del 1948, stabiliva che “le elezioni dei Consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali” dovessero essere indette “entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione”. Ma – come noto – nell’Italia repubblicana è la provvisorietà a dettare legge o meglio – in questo caso – l’opportunità politica, visto il rischio, paventato dai democristiani del dopo ’48, che il Partito Comunista potesse, in piena “Guerra fredda”, raggiungere la maggioranza in alcune regioni.
Ci vollero ventidue anni per passare dagli auspici costituzionali alla nascita delle regioni ordinarie. Fu con il primo governo Moro (1963) che la questione venne posta al centro dell’alleanza DC – PSI. Nel 1967 il Ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani, presentò alla Camera un disegno di legge poi approvato come legge elettorale regionale (Legge 17 febbraio 1968 n. 108), che vide il voto favorevole dei partiti di centrosinistra (Dc, Psi, Pri e Psdi), ma anche – non a caso – dell’opposizione di sinistra (Pci e Psiup).
L’ostilità al regionalismo del Msi
Il dibattito sui provvedimenti finanziari per l’attuazione delle regioni a statuto ordinario passò alla Storia delle cronache parlamentari, grazie all’opposizione intransigente delle destre (allora rappresentate dal Msi, dai liberali e dai monarchici). Giorgio Almirante prese più volte la parola durante il dibattito. Il 26 gennaio 1970 intervenendo sull’articolo 15, che prevedeva l’attribuzione alle regioni delle materie indicate nell’art. 117 della Costituzione, Almirante fece un intervento fiume di quasi dieci ore, guadagnandosi l’appellativo di “vescica di ferro”. L’opposizione missina fu di principio, contro il pericolo che venisse meno l’unità nazionale, ma anche sui contenuti e sui rischi per la gestione delle nuove istituzioni: “… le regioni tanto più costeranno – disse allora Almirante – quanto più saranno politicizzate; tanto meno costeranno quanto più rappresenteranno o potranno rappresentare o potrebbero rappresentare (poiché la mia credo sia ormai una vana illusione) degli organismi meramente amministrativi”.
Regioni come centro di costi
A cinquant’anni di distanza la politicizzazione delle regioni, con i conseguenti costi “di sistema” è una verità condivisa dai più. Già sul nascere, in anni segnati dallo strapotere partitocratico e da una bassa tensione nazionale, a vincere furono i particolarismi (di schieramento, di corrente e territoriali), le inefficienze (sanate dagli ancora “allegri” bilanci dello Stato), la corruzione diffusa. Per non dire dei costi fissi dei venti Consigli Regionali (più di un miliardo di euro, per gestione, rappresentanza e ristorazione: una somma simile a quella della Camera dei deputati), della burocrazia, delle aziende partecipate, delle agenzie di promozione.
L’esatto contrario di quanto auspicato, cinquant’anni fa, nella fase di partenza, quando l’idea (un po’ propagandistica) era di ridurre la burocrazia al centro, per spalmarla sui territori. In realtà le vecchie strutture ministeriali sono rimaste immutate, duplicate però sulle regioni, ed affiancate a quelle dei Comuni e delle Province, a cui, con grande fantasia, si sono aggiunte le Comunità montane. Ai costi in crescita degli apparati amministrativi non ha peraltro corrisposto il miglioramento (ecco l’ulteriore elemento propagandistico) dei rapporti tra i cittadini e le istituzioni, grazie alla celebrata vicinanza dei nuovi enti con il territorio.
Regioni fulcro partitocratico
Proprio nell’ottica di una difesa/dilatazione degli interessi partitocratici e dell’apparato, non si ebbe neppure il coraggio di realizzare un riordino delle competenze e dei rapporti tra gli Enti, con il risultato che oggi a gravare sui bilanci e sulla capacità di governo, permane la centralistica presenza dei ministeri, affiancati da cinque regioni a Statuto speciale, quindici ordinarie, 8.000 comuni, un centinaio di province e 14 città metropolitane. Insomma una Babele costosa e pletorica che non solo pesa sui bilanci, ma ha dilatato il peso della burocrazia, diminuendo le capacità di lavoro/risposta.
Il pasticciaccio brutto del regionalismo “all’italiana” sta in questo coacervo di contraddizioni che ne hanno segnato la nascita ed accompagnato la crescita: duplicazione delle competenze, debolezza nei controlli da parte dello Stato, logiche spartitorie, corruzione, cattiva gestione.
A cinquant’anni dalla nascita del sistema regionale più che “celebrare” è giunto il tempo di correre ai ripari. Facendo ordine nei bilanci, magari riportando le regioni al compito originario della programmazione e pianificazione territoriale, ridisegnandone i confini. Soprattutto decidendosi una buona volta su quale “modello” (federalista ovvero centralista) si intende puntare. Restando – come oggi – a metà del guado l’Italia intera rischia di affogare.
info@barbadillo.it
condivido l’articolo, misurato, ragionevole, propositivo. Ma il buon senso in Italia sembra che sia sparito, bisogna interpellare Chi l’ha visto? Aggiungo, come accennato altre volte, che c’è un progetto della Società geografica italiana che ridisegna l’asseto territoriale e amministrativo del Bel paese individuando, scientificamente, solo 36 dipartimenti che sostituirebbero le 20 regioni + le cento province + le 14 città metropolitane, cioè due terzi di enti in meno con un relativo risparmio di costi! Gli ecologisti in proposito parlano di bioregioni…
aggiungo che l’attuale modello di Stato, secondo il diritto costituzionale, non è né centralista né federalista, bensì – e purtroppo! – regionalista.
DC e PCI erano il Partito Unico della Prima Repubblica, e l’istituzione delle Regioni del 1970 prima, e il Compromesso Storico del 1975 poi, misero in evidenza questa triste verità. Giocavano a fare la maggioranza e l’opposizione, ma si facevano favori a vicenda, e l’istituzione delle Regioni aiutò moltissimo il PCI a rafforzarsi soprattutto in Emilia-Romagna, Tosca, Umbria e Liguria, e a creare un vero e proprio Sistema di potere e di monopolio assoluto dove governava. Si sono divisi la Nazione e l’hanno spolpata viva, e divisa non solo in aree di influenza, ma anche in settori di influenza, quello economico in mano alla DC, quello politico e culturale in mano al PCI.
Più che l’istituzione delle Regioni nel 1970, a far emergere la presenza di “20 Italie” diverse in questo periodo di Coronavirus, dove si assistono a contrasti tra Regioni governate dal centrodestra e Governo di Roma in mano alla coalizione giallofucsia, è stata la riforma del Titolo V costituzionale del 2001, fatta dal governo di sinistra ma con il pieno supporto della Lega Nord di Bossi, all’epoca all’opposizione. Il partito che rappresentava la “destra nazionale”, ovvero quell’AN guidata dal Giantulliano da Bologna, che dal punto di vista elettorale aveva più peso del Carroccio e si dichiarava centralista, quando la coalizione di centrodestra vinse le politiche del 2001 e Berlusconi tornò capo del governo – a sette anni di distanza dal tradimento fattogli dall’ex chitarrista di Gemonio – non fece nulla per cancellare quella porcheria. Anzi si era orientato verso il federalismo avendo appoggiato il progetto di riforma costituzionale varato dal Governo Berlusconi IV, bocciato al referendum del 2006, che prevedeva la devoluzione dei poteri alle Regioni in alcune materie di competenza statale.