Uno dei capolavori della pittura di tutti i tempi è la cosiddetta Tomba del tuffatore. Si trova a Paestum, ed è frutto di un felicissimo intreccio di civiltà: v’è la Magna Grecia, vi sono gli Etruschi come vi sono popolazioni italiche dell’interno, a testimonianza della comune origine indoeuropea. E l’origine degli Etruschi, poi, a quando e dove risale? Prende sempre più piede l’idea che fossero indoeuropei anch’essi. Certo la civiltà romana, fonditrice di popoli e tradizioni, senza gli Etruschi non potrebbe nemmeno concepirsi. Il periodo regio, finito bruscamente con una rivoluzione dell’aristocrazia romana contro la monarchia etrusca! E nessun reato era considerato più grave della adfectatio regni, l’aspirazione al ritorno della monarchia; pure, Virgilio e Mecenate erano etruschi, il che rende il mistero sempre più fitto.
Il sepolcro affrescato risale all’incrocio fra VI e V dei secoli a. Ch, e venne scoperto, da allora ch’era rimasto sempre chiuso, dal grande archeologo Mario Napoli nel giugno del 1968. Ora la tomba è aperta, è conservata nel Museo della città, in seguito dotata del nome latino Paestum che sostituisce l’originario Poseidonia: non si può contemplare senza un brivido. La fattura è squisita, ti ispira quel pathos della distanza del quale in altro senso parla Nietzsche. In lontananza dallo splendido museo, vedi i resti dei templi giganteschi onde emana comunque una forza numinosa. La tomba è la riproduzione di un convito funebre omosessuale; i convitati giuocano anche al kottabos, una specie di tennis ove le racchette sono i calici e le palle goccie di vino accuratamente dosate, che l’avversario raccoglie nella tazza e rilancia. Ma il dipinto è di carattere, se non misterico, esoterico: sullo sfondo un giovane è sospeso nell’aria. S’è appena gettato da una sorta di trampolino in un liquido rilucente che deve simboleggiare la Morte. È, con ogni probabilità, il giovane in onore del quale il banchetto è organizzato. Che cosa raffigura la singola immagine? Un suicidio rituale? Un simbolo del passaggio dal Nulla onde proveniamo a quello ove torneremo? Certo, non si tratta di una manifestazione sportiva. (Uno dei migliori vini rossi campani, prodotti da una casa eccellente quanto letterata, si chiama Kottabos. La casa, denominata “Masseria Frattasi”, è sannita, e mi è cara anche per questo: porto, per parte materna, sangue sannita anch’io, il sangue degl’ indomabili.)
Un romanzo “antico”
Un tema siffatto, il banchetto rituale con una sola figura femminile, cantatrice o prefica, introdottavi quasi di forza, non poteva non generare immensa bibliografia. Ovviamente, di carattere scientifico. Ma il togatissimo filologo classico Luigi Spina possiede uno spirito da scugnizzo napoletano. Così a tale letteratura aggiunge un breve e delizioso romanzo, firmandolo Gigi Spina – per chi non avesse capito che da uno scugnizzo dell’alta filologia proviene. Si tratta de Il segreto del tuffatore. Vita e morte nell’antica Paestum, Napoli, Liguori, 2020, pp. 63, euro 9,90.
Di primo acchito, egli possiede tutto per non piacermi: frammenti di canzoni rock, poesia contemporanea inzeppati nella storia. Il fascino della sua scrittura mi fa ammettere tutto ciò, data la coerenza del contesto. Solo l’orrido “recezione” (gergaccio universitario) in luogo di “fortuna” non gli perdonerò mai: la “fortuna” indica la qualità e la quantità, il modo dell’accoglienza di un’opera o di un tema o di un artista in particolare presso una civiltà successiva nel tempo. Spina tenta un rimedio dotto all’orrido anglismo, diacultura, vocabolo di sua creazione: che nemmeno mi persuade.
La dottrina e la scugnizzeria di Gigi Spina riconoscono plausibilità alla sua invenzione. Gli “interni” sono la casa del Maestro dipintore, il Narratore il figlio di questo, amico del morto. Un suicidio per amore, nell’antica Magna Grecia, continua tuttavia a parermi più accettabile e di trama serrata se commesso da un uomo per un altro uomo. Per un’etera emigratasene, mah! Io vi vedo raffigurata la morte, che Virgilio non narra, di Cidone. Nel Decimo dell’Eneide, due giovani combattenti latini – coppia simmetrica di Eurialo e Niso – affrontano i troiani. I due sono legati da amore. Clizio viene colpito dalla spada di Enea; Cidone desidera morire insieme coll’amato, ma viene salvato da una numerosa turba. Un Cidone potrebbe fare un suicidio rituale per i Mani del suo Clizio. Il mondo antico non attribuiva alla donna lo stato per esser degna dell’estremo sacrificio rituale in onore dei suoi Mani. Tacesse e filasse.
Certo è che tra gli apocrifi infilati nel testo dal geniale scugnizzo ce n’è uno, memorabile, che più gigispinista non poteva essere. Il gigantesco ed eroico Bute, di Velia e poi trasferitosi a Paestum, era uno degli Argonauti; disdegnoso del canto di Orfeo e fidente solo nella sua forza, nel primo incontro con le Sirene (il secondo è quello, celeberrimo, dell’Odissea), si getta a nuoto verso di loro, ne ascolta il canto e, vittorioso, gli resiste e torna indietro. Sceglie il mondo civile rispetto a quello ctonio. Idealmente a lui (o al Narratore) Gigi fa pronunciare, a chiudere il romanzo, il meraviglioso apocrifo nel quale è contenuto anche il Medio Evo europeo nel rapporto con i classici: “Da antico gigante mi sento come un nano appollaiato sulle spalle del nano che sono diventato durante questi secoli…”
*Da Libero Quotidiano del 12.5.2020