Il 7 maggio di 75 anni fa finiva la Seconda guerra mondiale. Lo ricorda oggi su “Repubblica” Ezio Mauro in una didattica, ma lucida “ricostruzione” «del mondo lacerato» e dell’«Europa divisa in due blocchi» nella quale si fece strada «quell’idea di democrazia che ancora difendiamo». Una “democrazia”, però, che oggi «ha negato il suo valore universale» e che «gli autocrati svuotano separando la sua forma dalla sostanza, disossandola dal suo scheletro liberale di valori e regole».
Viene allora da chiedersi, perché quella democrazia che ha superato tutte le insidie del “Secolo Breve” declina ora nel Terzo Millennio? Quali i prodromi di tale dissolvenza? Proviamo a rispondere partendo da un fatto ineludibile: fino al 1945 la storia contemporanea europea si identifica con quella dello “Stato-nazione”: un soggetto sociopolitico «complesso, vasto e differenziato di strutture istituzionali di dominio operanti tramite le attività continue e regolamentate di individui considerati come titolari di uffici» [1].
Con il 1945, però, cambia tutto. Il ruolo dello Stato si trasforma, perde le sue tradizionali capacità. É un fenomeno poco considerato dalle vulgate che cedono al “gioco degli schieramenti” formando generazioni di studenti sulle suddivisioni tra “vincitori” e “vinti”: categorie che da “belliche” divengono prima storiografiche e poi politiche. L’obiettivo non è solo una riduzione della Storia in disciplina nozionistica, ma quello di favorire l’inclinazione – negli studenti dell’oggi, cittadini in fieri – a ragionare “per categorie” predisponendoli a dividersi acriticamente in schieramenti. Approccio ben riuscito, se si guarda al “caso italiano”: da noi, dall’Unità ad oggi, l’intera società civile è stata – ed è tuttora – attraversata da divisioni frontali riconducibili «a contrasti di tipo etico-ideologico, ossia religiosi» [2].
Ma tornando a guardare oltre i confini italici, la storia contemporanea rivela che dall’epoca napoleonica le trasformazioni sociali, economiche e ideologiche europee si sono legate «alla crescita territoriale ed istituzionale degli Stati-nazione divenendone, in molti casi, componenti a tal punto fondamentali da determinarne ulteriori evoluzioni e/o involuzioni, culminate nel secondo conflitto mondiale» [3].
Una guerra che «è stata persa non dalla Germania, dall’Italia, dal Giappone, ma dallo Stato nazionale. E per contro vinta dalle grandi organizzazioni internazionali» [4]. Se infatti l’asse Roma-Berlino-Tokyo uscì perdente dal conflitto, stesso può dirsi «e in modo forse più lacerante e profondo, per le potenze vincitrici; in primo luogo la Francia e l’Inghilterra. Le quali […] conoscono, grazie all’avvio rapido ed inarrestabile della decolonizzazione, un declino, seguito da un vero e proprio declassamento del loro tradizionale ruolo di grandi potenze» [5].
Lo “Stato-nazione”, insomma, nel 1945 muore: è il vero “sconfitto del conflitto”. Gli Alleati – sebbene vincitori sul piano bellico – presi singolarmente, sono anch’essi Paesi distrutti: non sul piano militare ma, il che è più grave, su quello politico-ideologico. Sono interessati, come gli altri, al «ridimensionamento della tradizionale forma-Stato a favore delle super-potenze e della pratica economica a esse associata: economia di mercato ed economia di comando» [6].
Anche la vittoria militare degli “Alleati”, quindi, va ridimensionata se considerata non più in chiave storica ad usum delphini, bensì per quello che fu realmente: uno scontro tra truppe internazionali. La guerra di trincea lungo la Linea Gustav, ad esempio, fu combattuta tra militari che provenivano da tutto il mondo: «insieme con i soldati tedeschi operavano scandinavi, ucraini, polacchi, slavi, mongoli; con le forze alleate, oltre a inglesi ed americani, operavano francesi, neozelandesi, indiani, filippini, gurka, maori, sudafricani, algerini, marocchini» [7].
Altra vittima illustre del 1945 – oltre agli Stati nazionali – è l’Ottocento che, a differenza del Novecento, è “un secolo lungo”: «il periodo in cui lo Stato-nazione celebra le proprie fortune non solo politico-territoriali, ma anche sociali, economiche, etico-civili» [8]: se nel 1918 aveva ben arginato le prime pressioni delle élite proto-capitalistiche – coagulatesi intorno a Thomas W. Wilson nella Società delle Nazioni – volte a creare un’organizzazione economico-politica in senso internazionale, nel 1945 le Nazioni Unite realizzarono tale progetto a danno proprio dello “Stato-nazione”. Sulle ceneri di esso, a bordo della nave da guerra HMS Prince of Wales non fu stipulata solo la Carta Atlantica, ma il funerale di quello “Stato-nazione” simbolo stesso del primato universale dell’Europa: la struttura portante del sistema dell’Europa-mondo sorto «quale proiezione nazionalitaria e poi nazionalista di un’ideologia transazionale tra realtà e utopismo, tra civilizzazione e conquista» [9]. Abortì prima di nascere, dunque, l’idea utopica di un’Europa dei Popoli che dal 1957 in poi, infatti, si configurò progressivamente come l’Europa delle Banche: un organismo sovranazionale sì, ma la cui natura sarà essenzialmente finanziaria.
É nel 1945, quindi, che inizia il Novecento. Esso va sì inteso come “secolo breve” ma non secondo la periodizzazione di Eric Hobsbawn (1914-1991) [10], bensì come il periodo che corre tra la Conferenza di Yalta e il crollo dell’Urss e la successiva Deutsche Wiedervereinigung (1945-1990). É il 1945 l’anno nel quale si instaura il nuovo equilibrio che disegna entro tutti gli Stati-nazione «un sistema di governo sovranazionale, con la creazione delle Nazioni Unite e di una serie di regole attorno alle quali questo organismo è stato concepito e la determinazione delle condizioni per avviare (e poi, nell’arco di un ventennio, portare a termine) il processo di decolonizzazione, cioè lo smantellamento della regola portante dell’ordine precedente, che aveva retto dal 1815 al 1945» [11].
La fine dello “Stato-nazione” ha comportato una serie di conseguenze politiche, economiche e sociali alle quali nessuno si è potuto sottrarre: lo sviluppo di un diritto internazionale che ha svuotato quelli costituzionali dei singoli Stati; la demonizzazione dell’identità nazionale; la destoricizzazione della cultura correlata allo “Stato-nazione”, liquidata dalla globalizzazione e dal connesso neoliberismo; l’allontanamento della tecnica economica dai postulati classici dell’economia pubblica; la nascita e la crescita anabolizzante di una particolare forma di ordine mondiale a carattere classico basato sulla divisione e la contrapposizione tra due blocchi principali attraverso la Guerra Fredda e, infine, una volta superata questa, la sostituzione «nella comunicazione politica, nel linguaggio dei media, fino al recepimento subliminale di massa» del termine liberalismo con quello liberal: «acritica moda semantica, emblema di fuorvianza culturale e confusione delle lingue» [12].
Durante la Guerra fredda, insomma, si è rivelato il vero vincitore di quella mondiale: il “governo invisibile”, sovranazionale, non eletto da nessuno ma autoproclamatosi alla guida dell’intero globo terrestre che «celato alla vista del pubblico, raccoglie informazioni, svolge attività di spionaggio e progetta e realizza operazioni segrete in tutto il mondo» [13]. Un consesso di oligarchi che «si sono autonominati in base al censo e alla classe sociale, membri privilegiati dell’élite affaristico-finanziaria americana e occidentale» [14].
Certo, negli anni del Secondo dopoguerra, «pur di fronte ai primi, conseguenti esperimenti di nuovi rapporti di diritto internazionale, destinati (come i Trattati di Roma del 1957) a generare prossime organizzazioni internazionali-superstatali, non si poteva cogliere la portata storica della fine dello Stato nazionale» [15]. Ma oggi il quadro è piuttosto chiaro: l’internazionalismo-cosmopolitismo, vinta la guerra, si è cibato di tutto: «norme approssimative, adattabili all’opportunità variabile delle circostanze; di un confine morale (non territoriale); di tecnica (anche economica…)… Ma mai più di “Storia”. Che, anche involontariamente, ma pericolosamente, rischia comunque di ridare identità» [16] .
E che noi, sia consentita la precisazione, proprio per questo, continuiamo a fare.
Note:
[1] G. Poggi, La vicenda dello stato moderno, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 17.
[2] G. Aliberti, Diavoli in paradiso… ovvero lettera a Isotta, in Id., Il riposo di Clio, Roma, e-doxa, 2005, p. 218.
[3] G. Aliberti-F. Malgeri, Due secoli al Duemila. Transazione, mutamento, sviluppo nell’Europa contemporanea (1815-1998), Milano, LED, 1999, p. 15.
[4] P. Simoncelli, Ecco perché gli studi storici stanno morendo: sono pericolosi, in «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», a. XX, n. 57, del settembre-dicembre 2017, p. 205.
[5] G. Aliberti- F. Malgeri, Due secoli al Duemila, cit., p. 16.
[6] C. Galli, Sovranità, Bologna, Il Mulino, 2019, p. 38.
[7] V. Cirillo, Gli uomini ombra della libertà, Roma, Gesualdi Editore, 1984, p. 20.
[8] G. Aliberti- F. Malgeri, Due secoli al Duemila, cit., p. 16.
[9] Ibidem.
[10] E. Hobsbawn, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century, 1914-1991, New York, Vintage, 1994.
[11] G. De Michelis, La lunga ombra di Yalta. La specificità della politica italiana, Venezia, Marsilio, 2003, p. 11.
[12] P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, del 28 settembre 2014, ora in G. Di Leo, Atti del Convegno di Pescasseroli e Pescina, Roma, Aracne, 2015, pp. 162-163.
[13] D. Wise-T.B. Ross, Il governo invisibile, Milano, Longanesi, 1967, p. 1.
[14] N. Chomsky, Così va il mondo, Milano, Piemme, 2018, p. 5.
[15] P. Simoncelli, Ecco perché gli studi storici stanno morendo: sono pericolosi cit., p. 206.
[16] Ivi, p. 207.
Direi che il conflitto è stato perso dagli Stati piccoli rispetto agli Stati grandi (USA, URSS) per una enorme disparità di risorse. Non mi pare che USA, URSS, in prospettiva Cina, non siano “Stati”, intesa come categoria identificabile da Westfalia, 1648, in poi. L’apogeo dell’Occidente fu il 1913, che fu anche l’apogeo dell’imperialismo, quando esso deteneva il 60% del controllo territoriale del mondo e, se ben ricordo, l’80 per cento di produzione della ricchezza. Non male su questi temi: Niall Ferguson, Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà (Italiano), 2012, Mondadori. Da lì l’esigenza della costruzione di un’entità europea che finora si è scontrata con i residui egoismi nazionalistici, il peso della storia, con la mancanza di una conduzione politico-militare forte, con una coscienza europea che si è da tempo impantanata anzichè progredire. Tornare a insignificanti Stati-Nazione pre 1945 non è né possibile, né opportuno, e non servirebbe proprio a nessuno.
Le Nazioni Unite nacquero per volontà di Roosevelt, per estendere, consolidare il potere degli USA come superpotenza mondiale. Furono il prodotto dello “Stato” (nordamericano), non dell’ “antistato”.
non fossero (no, non siano) ‘Stati’, pardon…
La prima e la seconda guerra mondiale sono state le due grandi guerre del Peloponneso dei popoli europei. Tutti i mali del vecchio continente, e del mondo, sono nati da lì. Dopo, la Grecia ebbe un Filippo il Macedone, l’Europa ne ha avuti due che si sono contesi la sua anima. Ma all’orizzonte non vedo nessun Alessandro Magno…
Tutto vero.
Complimenti “Barbadillo” per la nuova veste grafica, anche se devo dire che mi ero affezionato alla vecchia ed ora sono un pò spaesato, però già da una prima occhiata generale devo fare i complimenti al curatore(o webmaster che dir si voglia) per l’ottimo lavoro, la piattaforma oltre ad apparire più accattivante è rimasta assolutamente accessibile a tutti ed anzi è interessante il livello di profondità dato alla navigazione nel sito ed in tutti i suoi contenuti multimediali, adesso visualizzabili ed accessibili in un attimo.Inoltre per adesso pare addirittura alleggerita la fruizione ed i tempi di caricamento sono ottimali. Quindi di nuovo complimenti e buona navigazione a tutti gli utenti.
X il nuovo format di Barbadillo
Complimenti a parte questo dualismo di colore rosso e bianco che fa molto ” web-magazine sinistrorso global-progressita”
Ci si deve aggiungere il Nero per evitare fraintendimenti.
Comunque godibile.
Onore alla Divisione Charlemagne Ultima legione di Leoni che difese Berlino
Un saluto
È evidente che solo la cialtroneria della falsificazione dei fatti storici, soprattutto per mano sionista, può ancora, per poco, sostenere che il 1945 ha vinto la libertà.
Peccato però che delle citazioni la più aderente agli eventi sia quella di Chomsky, ma non mi sorprende: chi è stato dalla parte dei vincitori (e Chomsky da quella parte sta) sa bene chi ha vinto, solo che non sono molto quelli che lo confessano.
Mentre la gran parte si fa abbindolare da falsari tipo Spielberg (l’indecente Schidler’s List grida vendetta per quanto è apologia del falso e dell’odio verso un popolo)
Una bella ricostruzione dei fatti, documentata e puntuale. Interessante la digressione sullo stato-nazione che in effetti esce malconcio dal 1945 in poi, anche se in modo subdolo, quasi senza accorgercene. Certo che il processo di integrazione europea non abbia aiutato gli stati a fare la storia da conflitto a oggi. Sulla grafica del sito, che dire, mi piace molto! Un pò troppo rosso, forse, ma non siamo certo noi a declinare le cose e i colori in senso partitico. L’importanza è la sostanza. E qua c’è. Andrea.