La fase 2 per il governo pare iniziata ieri all’incirca all’ora di pranzo, quando Carlo Bonomi è stato eletto a schiacciante maggioranza (123 voti contro 60 della candidata avversaria, Licia Mattioli, e nessuna astensione, o scheda bianca o nulla) alla presidenza di Confindustria. Una fase 2 non voluta però dal governo, non in questi termini. Con voto telematico per l’emergenza pandemica il Consiglio generale ha designato il successore di Vincenzo Boccia, che verrà poi definitivamente eletto il prossimo 20 maggio durante l’assemblea privata degli industriali.
Chi è Carlo Bonomi? Dal giugno 2017 è presidente di Assolombarda, l’associazione delle imprese che operano nella città metropolitana di Milano e nelle province di Lodi, Monza e Brianza, esattamente uno dei focolai della pandemia così come uno dei centri nevralgici del sistema produttivo nazionale. Non è forse nemmeno un caso che sia imprenditore nel settore bio-medicale, presidente della Synopo e delle aziende manifatturiere controllate, Sidam e BTC Medical Europe. Insomma, pare proprio l’uomo giusto al posto giusto. Si tratta ora di capire se possa esserlo anche per Giuseppe Conte e il suo governo.
Se stiamo alle prime dichiarazioni rilasciate a porte chiuse dal neo-designato presidente di Confindustria c’è da dubitarne. Queste le sue prime parole, secondo quanto riportato ieri dal “Sole 24ore”: «Dobbiamo metterci immediatamente in condizioni operative tali da affrontare con massima chiarezza ed energia la sfida tremenda che è davanti a noi: continuare a portare la posizione di Confindustria su tutti i tavoli necessari rispetto a una classe politica smarrita in questo momento, che non ha idea della strada che deve percorrere il nostro Paese». Sempre secondo l’organo di stampa di Confindustria, Bonomi avrebbe poi aggiunto: «La politica ci ha esposto ad un pregiudizio fortemente anti-industriale che sta tornando in maniera importante in questo Paese», concludendo in modo perentorio, che non lascia adito a molti dubbi: «Non pensavo di sentire più l’ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori. Sentire certe affermazioni da parte del sindacato mi ha colpito profondamente. Credo che dobbiamo rispondere con assoluta fermezza». Secondo “HuffPost” avrebbe sostenuto anche l’emergenza di «riaprire le produzioni perché solo le produzioni danno reddito e lavoro e non certo lo Stato, che come un padre dispensa favori e non ha le risorse per farlo».
La tregua è finita, pare proprio di capire. Se i destinatari di questa prima esternazione sono in generale governo e sindacati dei lavoratori, i Cinque Stelle sono gli accusati numero uno, assieme a tutti coloro che nel Pd tengono bordone ad una logica attendista, dilazionatoria e che punta solo all’erogazione a pioggia di denaro, peraltro ancora tutto da reperire e sicuramente sempre e solo a debito verso creditori esterni all’Italia. Una riapertura complessiva del comparto industriale, e non più attraverso la logica dell’allungamento lento e graduale della lista con i codici Ateco, identificativi delle diverse attività. Si chiede cioè al governo un piano strategico, il più possibile ampio e dettagliato, con date e dati certi (Bonomi: «Non abbiamo veri dati, ci danno dati aggregati ma non riusciamo a capire nella realtà cosa stia accadendo»). Sempre il nuovo numero uno di Confindustria avrebbe infatti dichiarato: «Vanno benissimo i comitati degli esperti, ma la loro proliferazione dà il senso che la politica non ha capito, non sa dove andare. Abbiamo un comitato a settimana senza poteri, senza capire dove si vuole andare». Affermazioni pesanti che, se lasciate trapelare, parrebbero da leggersi come ultima chiamata, senza appello.
In tal senso andrebbe letta l’ordinanza del commissario straordinario Domenico Arcuri che, coincidenza vuole, proprio ieri ha assegna ad una società di tecnologia digitale la concessione per l’attività di monitoraggio attivo del contagio, una volta che questa sarà decisa dal governo. Proprio ciò che Bonomi avrebbe ieri segnalato come mancanza e ritardo governativo: «Non abbiamo dispositivi di protezione, tamponature a tappeto, indagini a cluster della popolazione sulla concentrazione dei contagi, né test sierologici sugli anticorpi, né tecnologie di contact tracing».
Resta da capire se il governo Conte bis abbia la forza e la compattezza interna per assecondare questa linea fortemente richiesta dalla nuova linea di Confindustria. Quel che pare configurarsi all’orizzonte è una linea di frattura dal potenziale dirompente. Il governo giallorosso pare ad oggi essersi mosso secondo una logica basata sul ruolo sussidiario dello Stato. Anche le più recenti esternazioni di Luigi Di Maio vanno in quella direzione: rassicurare l’opinione pubblica garantendo miliardi di euro in arrivo per tamponare le gravi perdite in termini di ricavi che gran parte del settore privato sta subendo da circa un mese e mezzo a questa parte. Non credo sia un dato da sottovalutare come l’attuale governo e il partito di maggioranza relativa, ossia i Cinque Stelle, siano elettoralmente (almeno nel 2018 lo furono) espressione prevalente del Sud. Dall’altra abbiamo il Nord del Paese. E non è tanto questione di colore politico, o non solo, visto che includiamo anche l’Emilia-Romagna di recente riconfermata al centro-sinistra, sia pure con un esito elettorale più sfumato e articolato di quanto si pensi. Qui parliamo soprattutto di economia e valutiamo con i numeri il peso del mondo produttivo settentrionale.
Secondo l’Istat il Pil dell’Italia nel 2017 – ultimo anno per cui ci sono i dati ripartiti per regioni – è stato pari a 1.725 miliardi circa di euro. La Lombardia ha contribuito per 383,2 miliardi, il Veneto per 162,5 miliardi, l’Emilia-Romagna per 157,2 miliardi. Dunque, sommando i dati delle tre regioni, risulta un contributo al Pil nazionale pari a circa 703 miliardi di euro. In percentuale rispetto al Pil si tratta del 40,1%. Per quanto riguarda la popolazione, in Italia al primo gennaio 2018 risiedevano 60,484 milioni di persone. Di queste, 10,036 milioni in Lombardia, 4,905 milioni in Veneto e 4,453 milioni in Emilia-Romagna. Dunque nelle tre regioni risiedono complessivamente 19,4 milioni di persone circa, cioè il 31,5% della popolazione residente in Italia. Ne consegue che il Pil pro-capite di queste regioni è nettamente più alto della media italiana. La Lombardia, con 38.200 euro all’anno, è seconda solo alla Provincia autonoma di Bolzano (42.300 euro). L’Emilia-Romagna arriva quarta con 35.300 euro annui (terza è la Provincia autonoma di Trento) e il Veneto con 33.100 euro si piazza sesto, sopravanzato dalla Val D’Aosta. Dunque il contributo di queste tre regioni del Centro-Nord è cruciale per l’Italia, tenuto anche conto che da sole totalizzano più del 50% dell’export di tutto il Paese. Se aggiungiamo Piemonte, Liguria e Friuli-Venezia Giulia il dato si fa ancora più imponente.
Imponente e allarmante per l’attuale compagine governativa, la quale si trova oggi di fronte ad una spinta dichiaratamente “nordista”, più del consueto, data l’emergenza, espressa da un importante attore qual è Confindustria, finora in posizione interlocutoria se non filogovernativa. In altre parole, potrebbe profilarsi all’orizzonte il venire al pettine di un nodo gigantesco, vero e proprio nodo di Gordio dell’assetto statuale italiano: il divario Nord-Sud. Nella relazione 2019 a parlamento e governo sui livelli e la qualità dei servizi offerti dalle pubbliche amministrazioni centrali e locali ad imprese e cittadini, elaborata dal Cnel e presenta il 15 gennaio scorso, si legge che «L’Italia è il Paese europeo con le più grandi differenze tra regioni», con l’aggiunta che «il nostro Paese non eccelle neanche in termini di innovazione tecnologica». Relazione che conferma quanto esattamente un anno prima, gennaio 2019, rilevava l’Istat in termini di Bes (benessere equo e disponibile). Se il trentennio successivo alla seconda Guerra mondiale si caratterizzò per un certo grado di convergenza economica, da allora il gap si è fatto crescente e oggi allarmante in termini di istruzione e formazione. Altrettanto grave il divario in termini di Neet, giovani tra i 15 e i 24 anni che né studiano né lavorano. La loro percentuale nelle regioni meridionali è più del doppio che in quelle settentrionali. Nel 2017 toccava il 34,4%, più del doppio della media europea. Il tasso di occupazione (concernente individui tra i 20 e i 64 anni) registra un Nord in cui lavorano quasi 3 persone su 4 e un Sud con 2 su 4. Se passiamo poi al censimento delle persone che sarebbero disposte a lavorare, ma non riescono, ebbene nel 2007 eravamo già ad un drammatico 21%, nel 2017 il dato è salito ancora, arrivando al 24%. Quanto alla brevettazione, che segnala i livelli di ricerca e innovazione del tessuto produttivo, al Nord si registrano poco più di 100 domande per milione di abitanti, al Sud il dato è di 9 volte inferiore, con una media di sole 8,6 richieste di brevetto. Per non parlare dell’emigrazione di laureati fra i 25 e i 39 anni che lasciano il Sud per il Nord in cerca di un’occupazione adeguata al loro titolo di studio.
Ora come non mai sarebbe occasione propizia per avviare un imponente piano di infrastrutturazione dell’intero territorio nazionale, comprese le reti di telecomunicazione digitale. Su questo potrebbero essere proficuamente investiti le centinaia, o migliaia, di miliardi di euro di cui si sente parlare in questi giorni. Le reticenze degli stati nordeuropei sono motivati, oltre che da inveterati e malcelati pregiudizi nazionalistici, anche dal malo modo in cui abbiamo in passato utilizzato, o meglio: sprecato, i fondi strutturali europei.
Ci sono dunque due macro-aree e due logiche economico-politiche, il Nord e il Sud, che vanno amalgamate nel modo più virtuoso e lungimirante possibile, sempre che sia ancora possibile farlo dopo decenni di oblio e abbandono della questione nodale. Un’azione di supporto che interviene dall’alto (Stato), un’azione che spinge dal basso e riavvia la produzione di nuova, sia pur contenuta, ricchezza. Spesa pubblica, intrapresa privata. Il governo giallorosso dà l’impressione di essere sbilanciato in un senso, e le più recenti polemiche con le regioni del Nord vanno in tal senso. Al di là della contesa politico-partitica, vi è qualcosa di più: il venire allo scoperto della forte eterogeneità che sotto un numero crescente di ambiti sta segnando il divario tra Nord e Sud. Come ogni grande crisi che si rispetti, anche questa inopinata pandemia porta alla luce malesseri latenti e troppo a lungo trascurati. Due modi di intendere il rapporto cittadino-Stato. Com’è noto, “crisi” deriva dal verbo greco κρίνω: “separare”. Il riferimento era alla trebbiatura, all’attività conclusiva nella raccolta del grano, la separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula (involucro che riveste il chicco di grano). Da qui il significato traslato di “scegliere”. Altrettanto evocativa è l’etimologia della parola crisi nella lingua cinese, che merita ricordare, vista anche la genesi geopolitica di questo virus pandemico. “Crisi” in cinese è parola composta da due ideogrammi: il primo “wei” che significa problema, mentre il secondo “ji” che significa opportunità. La crisi, dunque come situazione che può essere colta o trasformata in momento di riflessione, pur rapida, innescando svolte decisive. Disperazione, smarrimento, paura, agitazione, angoscia, impotenza, incertezza sono gli stati emotivi che una vera crisi produce in prima battuta. Il momento critico rappresenta però anche una situazione di transizione, ci dice che non possiamo più continuare ad andare avanti come si è fatto sino a quel momento senza apportare modifiche in noi e all’ambiente che ci circonda ed entro il quale ci muoviamo: è assolutamente indispensabile ripensarsi, reinventarsi ed attribuire il giusto significato a quanto sta accadendo.
Occorre capire se quanto ieri, 16 aprile 2020, si è mosso, porti a rotture oppure, per usare espressioni d’altri tempi, a nuovi equilibri avanzati. In ogni caso, le settimane che ci attendono saranno quasi sicuramente decisive per capire se l’attuale classe politica al governo sia davvero dirigente, in grado di guidare questa crisi, sia capace di scegliere cogliendo anche, perché no?, le opportunità di crescita e di evoluzione. È una sfida che attende le classi dirigenti praticamente di tutto il mondo, ma qui premeva parlare di casa nostra, della terra dei nostri padri e dei nostri figli.