Qualche lettore, vedendo il titolo, avrà di sicuro pensato ad un refuso, ma paradossalmente non è così. Partiamo dai termini galera e galeotto. Derivata dall’antica liburna, la galera o galea era un bastimento tipico del periodo velico, destinato ad esser soppiantato nell’Ottocento dalla nave a vapore. Qualche esemplare comunque rimase in linea, per combattere i barbareschi o per motivi di prestigio. La sua leggerezza e il pescaggio minimo rendevano la galera molto veloce e le consentivano di manovrare con facilità nei combattimenti navali, specie nei pressi della costa. Per la sua conformazione, viaggiava di norma nel periodo estivo e col mare calmo. Ve n’erano di tutti i tipi e nomi, secondo grandezza (bastarde, galeazze, galeotte) o funzioni (reali, generalizie, capitane). Sono le più grandi superavano di poco cinquanta metri. Lunga e sottile, oltre a due alberi e vele triangolari aveva un ponte, dove su ogni fiancata si trovavano in numero variabile i remi. L’intera vita di bordo si svolgeva qui, non essendovi cabine se non per il comandante. La sentina veniva utilizzata solo per le munizioni, le provviste e per i turni di riposo. Spesso, però, essendovi l’aria irrespirabile a causa degli scoli d’ogni tipo, la sentina era usata come posto di punizione, mettendo a sorveglianza del galeotto una sentinella (termine, quest’ultimo, derivato poi da lì).
Lungo i banchi, in cui erano affiancati i vogatori, correva un corridoio rialzato per il passaggio. Qui stazionava l’aguzzino (dal termine “al wazir”, che da addetto alla sorveglianza del palazzo designò col tempo il sorvegliante dei galeotti durante il viaggio). A lui era affidata la vita stessa dei rematori, che egli poteva sfiancare a scudisciate. Tormento, che era poca cosa al confronto della temutissima bastonatura, inferta per motivi disciplinari in un numero di colpi variabile fino alla morte. In genere, questa punizione veniva praticata da un altro prigioniero, che veniva sollecitato alle spalle dalla frusta dell’aguzzino affinché non usasse riguardi allo sventurato di turno. I rematori erano incatenati al banco, dove espletavano tutte le loro esigenze. Naturalmente, la loro sorte era segnata in caso d’affondamento. In genere, si trattava di incalliti criminali, che anziché finire in mano al boia venivano condannati al remo, secondo un’usanza probabilmente introdotta da Carlo V nei Paesi Bassi. L’utilizzo di questi condannati andò quindi ad affiancarsi a quello precedente di utilizzare ai remi i prigionieri di guerra (di preferenza turchi, mori e abitanti della Slavonia, da cui viene il termine “schiavi”). Per sfoltire i luoghi di pena o per lucrare, molti Stati che non possedevano una flotta – Austria, Lucca, Milano, ecc. – presero l’abitudine di cedere i loro condannati a chi ne avesse bisogno. La ciurmaglia dei vogatori si completava spesso con ex galeotti, che avevano espiato una condanna a tempo e che, non avendo di che vivere, chiedevano di restare ancora sulle galere dove il vitto almeno era sicuro. Stranamente, c’erano pure dei volontari che non avevano conti in sospeso con la giustizia. Definiti perciò “buonavoglia”, stavano al remo come gli altri, ma avevano la possibilità di partecipare all’occorrenza alle operazioni belliche accanto agli armigeri imbarcati. In più era loro permesso avere i baffi, mentre la rasatura per motivi igienici era d’obbligo per gli altri. Naturalmente, un’attività stressante come quella richiesta dall’incatenamento ai remi presupponeva una condizione fisica non compromessa. Per questa ragione, prima di esser messo al remo, ogni individuo veniva sottoposto ad un’accuratissima visita medica, periodicamente rinnovata. Bastava un minimo difetto o una malattia, per essere scartati ed inviati altrove. Non è poi da pensare che i galeotti restassero perennemente al remo. Ogni notte, non avendo alloggi a bordo, le galere li sbarcavano – debitamente incatenati – su qualche spiaggia, nelle darsene e negli arsenali navali. Molte volte, specie nei mesi invernali quando la nave era alla fonda, i galeotti venivano adibiti a lavori di riparazione degli scafi o alla costruzione di altri battelli. In un giro di verifica delle condizioni dei prigionieri, l’inglese J. Howard riscontrò che nello Stato pontificio (ma anche altrove) i galeotti impegnati in lavori di questo genere ricevevano una somma di danaro, che poi s’affrettavano a spendere al cosiddetto bettolino o per pagarsi le spese di giustizia. Il filantropo notò pure che essi si muovevano senza catena al piede e alloggiavano in ambienti puliti, contrariamente a quel che accadeva quando erano ai remi. Lo stesso può dirsi della Darsena di Napoli, rispetto a Procida. La necessità d’accogliere la ciurma quando annottava fece sì che i luoghi d’accoglienza fossero chiamati “bagni penali” (termine che s’estese alle galere stesse). Essi dovettero la denominazione al fatto d’esser perennemente umidi per le infiltrazioni, essendo collocati sotto il livello del mare. Con il lento declino delle navi in questione, i galeotti presero ad essere utilizzati sempre più in lavori di pubblica utilità. In tal caso, uscivano legati a due a due con una palla al piede, sì da non fuggire e fungere da monito alla popolazione. Nessuno poteva essere escluso sia pure per ragioni disciplinari da quella, che dopotutto era una boccata d’aria fuori dal “bagno”. Quanto alle mancanze disciplinari, in Toscana esse erano minori di quelle registrate nelle carceri, non perché i galeotti fossero più miti, ma a causa della maggiore rilassatezza di disciplina propria dei “bagni” (Peri). Generalmente, i forzati erano adibiti a lavori di sterro, costruzione e canalizzazione, ma non oltre i quattro chilometri dalla darsena, per consentirne il rientro a sera. Se non c’erano lavori pubblici da fare, potevano essere assegnati al servizio di un privato. Insomma, godevano di una relativa libertà, essendo loro consentito di uscire per una passeggiata, sempre col vincolo per ogni coppia della palla e della catena alla caviglia sinistra e talora di un cartello. In Sardegna, i galeotti lavoravano nelle saline senza catene e segni distintivi e potevano dormire all’aria aperta, invece di tornare nel sudiciume dei dormitori. L’occasione di lavoro consentiva anche d’incontrare le prostitute che accorrevano nei pressi, con il risultato però di mandarne parecchi all’infermeria con malattie veneree. Gradatamente, via via che le galere scomparivano, la pena ai remi si trasformò nei lavori forzati da scontarsi nei suddetti bagni. All’inizio dell’Ottocento, nei “bagni” la vita si differenziava da quella delle carceri perché il forzato fruiva di una libertà molto più ampia: e, in quelle condizioni, non era poco. Dal che discendeva la preferenza verso la pena dei lavori forzati, come documentano alcune impugnazioni di sentenze che avevano disposto l’invio dell’imputato alle carceri cellulari, anziché al “bagno”. Eppure, nella graduazione delle pene, l’ergastolo era in cima. In realtà, la segregazione, affermata dalle nuove teorie penitenziarie per emendare il condannato, era odiosa rispetto alla promiscuità dei “bagni”, dove si viveva tutti assieme nelle camerate. Secondo F. A. Mori, “i galeotti toscani anteponevano l’infamia dei lavori pubblici alla segregazione introdotta nelle nuove case penali”, al punto che “alcuni di essi, trasportati per breve tempo a Volterra, non cessavano di lamentarsi della insolita severità della segregazione continua”. Per loro sfortuna, prevalsero le nuove teorie carcerarie. E così – aboliti galere e bagni – rimasero nell’uso corrente solo le espressioni “ceffo da galera” o “patrie galere”.
‘In genere, si trattava di incalliti criminali, che anziché finire in mano al boia venivano condannati al remo, secondo un’usanza probabilmente introdotta da Carlo V nei Paesi Bassi’. E prima di Carlo V? E nelle antiche civiltà mediterranee, Roma compresa? O forse le galere prima funzionavano a motore….?