L’anno scorso la casa editrice milanese OAKS ha dato alle stampe un lavoro davvero importante di Giovanni Sessa, Julius Evola e l’utopia della Tradizione, che merita ben più di una semplice recensione, solitamente destinata a esaurire ben presto i suoi effetti, essendo un testo tra i pochissimi capaci di parlare di Evola con originalità di pensiero e con mente libera. Non a caso, già il sintagma utopia della Tradizione spiazza e dà da pensare, in quanto include un termine, appunto “utopia”, di certo non ricorrente nell’ambiente che usualmente si occupa di Evola.
A scanso di equivoci, Sessa non intende l’utopia come un che di meramente ideale, di radicalmente sganciato dalla realtà, come un esangue sogno ‘evasionistico’, per riprendere la terminologia di Moses Finley. Né tantomeno rimanda alle varie utopie progressiste tipiche del secolo dei Lumi, su cui si è recentemente soffermato Vincenzo Ferrone nel suo Il mondo dell’Illuminismo, o a quel ‘non-ancora’ di cui parlava Ernst Bloch.
Piuttosto, il riferimento all’utopia in Sessa rappresenta da un lato l’invito a non adeguarsi al reale, a non appiattirsi sull’esistente, dall’altro è un tentativo di rendere ‘transitabile’ quell’utopia col segno negativo, in quanto definita ‘intransitabile’, che stava al centro di un vecchio saggio di Massimo Cacciari.
Ora, in effetti Sessa salda queste due prospettive nel momento in cui legge la Tradizione come il sempre possibile, il che gli consente non solo di riscattarla da un destino statico e inerte, che in fondo la ridurrebbe a una sorta di relitto ‘eternizzato’ nel migliore dei casi, o una mera astrazione nel peggiore, ma anche di disegnare uno scenario in grado di dar vita a una possibile alternativa all’oggi. Insomma, è qui, nel sempre possibile, che va ritrovata la ‘transitabilità’ dell’utopia, laddove il possibile, a sua volta, va inteso come qualcosa il cui opposto non è necessario. Ovviamente il possibile è anche ciò che pur non esistendo potrebbe esistere, distinguendolo quindi dal contingente, che invece esiste ma potrebbe non esistere. Però, nell’economia del discorso di Sessa, ritengo che siano presenti entrambe queste concezioni del possibile, perché la prima dimostra che la ‘morte della Tradizione’, da intendere appunto come l’opposto della Tradizione come ‘sempre possibile’, non ha nulla di necessario e di inevitabile, non è qualcosa di già-scritto, di ineluttabile. E ciò spiega di conseguenza perché Sessa coniughi la Tradizione col nuovo inizio; la Tradizione può sempre iniziare daccapo proprio perché è posta non sotto il segno di una spenta immutabilità, incapace di vita, ma della possibilità, e quindi potrà nuovamente essere, cosa che non a caso spinge Sessa a ‘declinare’ la filosofia evoliana come filosofia della libertà. Per cui, detto in estrema sintesi, sono Tradizione, sempre possibile, nuovo inizio, libertà, a comporre la ‘costellazione’ teoretica evoliana.
Questo, per quanto sommariamente descritto, è il motivo di fondo del libro di Sessa, il suo orizzonte ultimo. Passando ora a un esame più dettagliato del testo, spicca la centralità riconosciuta dall’autore alla filosofia evoliana, vista non solo, in generale, come una risposta alla filosofia analitica oggi tanto di moda (che vuole rassicurare “dirimendo gli enigmi”, nota acutamente Sessa a p. 16), ma anche come “il luogo dell’attualità” (p. 21) dell’itinerario di ricerca di Evola, insomma, se ben interpretiamo, da intendere come il suo ‘cuore’ vitale, purché l’interrogare la filosofia evoliana non sia mosso da una distaccata curiositas, né finisca per trattarla come un semplice reperto museale, bensì sia ‘agito’ dalla convinzione che essa abbia ancora qualcosa di essenziale da dirci. Ma attenzione, non per orientarci nell’oggi; anzi, chi cercasse nella filosofia evoliana risposte ai problemi dell’oggi ne perderebbe immediatamente il senso, in quanto è proprio la sua irriducibile inattualità, la sua profonda, costitutiva ‘dissonanza’ col presente a farla paradossalmente attuale. Se la filosofia evoliana fosse del tutto appiattita sull’oggi, smetterebbe di essere autentica filosofia. Da qui, di nuovo, la sua ‘attualità’, il suo essere, cioè, vera filosofia, non a caso lontana da tutte le mode. Ecco spiegato perché Sessa ricorre al concetto di attualità inattuale (p. 203) per definire l’opera e il pensiero evoliani.
Non stupirà, pertanto, il dialogo, messo in campo da Sessa nella prima parte del suo volume, tra Evola e alcuni altri grandi inattuali del Novecento italiano, quali Carlo Michelstaedter e Andrea Emo. Ma prima ancora, in un capitolo assai denso, Sessa si sofferma su alcuni rilevanti plessi teoretici; innanzitutto sull’interpretazione, che si deve a Roberto De Mattei, della filosofia evoliana come transidealismo, che giustamente l’autore rettifica col ricorso al termine di transattualismo per meglio cogliere la ‘circostanza storica’ decisiva, vale a dire l’attualismo gentiliano, in cui prende avvio la ricerca filosofica di Evola, ma anche per segnalarne il superamento, in quanto l’idealismo magico evoliano è ben lungi dal risolversi integralmente nella temperie attualista e, aspetto ancor più essenziale, non ricade nemmeno in quella “metafisica della soggettità entificante”(pp. 49-50) denunciata con forza da Martin Heidegger, in virtù del suo essere, lo si è già detto, filosofia della libertà. Altro punto dirimente è l’inquadrare lo sforzo filosofico di Evola in un contesto attraversato da una crisi epocale che irreparabilmente lo segna e ne determina il ‘tono’, paradossalmente tragico e insieme oltrenichilistico, perché tutto incentrato, ancora una volta, su di una abissale libertà. Infine Sessa richiama Dioniso come ‘emblema’ della libertà, attraverso una assai sottile lettura dei motivi che spiegano la lontananza dell’Io Assoluto evoliano dal soggetto attualista, incapace, da parte sua, di andare al di là della “dimensione logocentrica” e di riconoscere “l’inanità dell’opposizione di esistenza ed essenza” (p. 59).
L’importanza del discorso filosofico non viene meno neanche nelle restanti parti in cui è diviso il lavoro di Sessa. ‘Sconvolgendo’ un attimo l’ordine del testo, anche l’analisi di Rivolta contro il mondo moderno, contenuta nella terza parte del volume, è condotta con mezzi filosofici. In particolare, Sessa si sofferma sulle ‘categorie’ di tempo, spazio e terra in Rivolta. Di contro all’errore moderno, di matrice kantiana, di considerare ingenuamente “tempo e spazio non solo come universali ma come, in ogni epoca, uguali a se stessi” (p. 209), Evola rivendica una loro concezione qualitativa e differenziata. Il tempo infatti, pur disponendosi in cicli, secondo l’‘architettura’ di Rivolta, mai viene assoggettato a una ripetitività seriale, in quanto la durata cronologica di ciascun ciclo poteva di volta in volta variare. Stesso discorso per lo spazio, ricondotto a una ‘geografia sacra’ che ne nega alla radice ogni concezione equivalente ed omogenea, laddove la terra, da leggere comunque “come un momento interno alla categoria dello spazio” (p. 215), nella prospettiva tradizionale va esperita come un che di ‘vivente’, dunque in grado di dar vita a un legame organico e differenziato con gli uomini che la ‘abitano’.
Come già detto in precedenza, anche nella seconda parte non mancano i riferimenti ad Heidegger e soprattutto a Nietzsche, pur se inseriti all’interno di una più generale riflessione sul rapporto tra Evola e la cultura tedesca, che Sessa, con mossa originale, pone sotto il segno della cosiddetta Germania segreta. Questa formula, coniata da Karl Wolfskehl, un aderente del George-Kreis, allude ai valori della Germania eterna, e quindi “dell’Europa della Tradizione” (p. 130), una Europa possibile, “suscitatrice di azione oppositiva nei confronti del presente…atta, quindi, a far essere l’impossibile (rispetto allo stato presente delle cose) Tradizione” (p. 132). Ed Evola infatti fu proprio “in contatto con ambienti che vedevano in Hitler un usurpatore e guardavano alla Germania segreta e ai suoi autori al fine di costruire un’altra Europa” (p. 136). Sempre nel contesto dei rapporti con la cultura tedesca, Sessa si sofferma inoltre sul collegamento, di fondamentale importanza, tra Evola e l’opera di Johann Jakob Bachofen, indagandone tutta una serie di aspetti, a partire da quello, maggiormente privilegiato dal punto di vista dell’analisi, della simbolica della storia.
Ora, in chiusura di queste scarne annotazioni, di certo insufficienti a mostrare tutta la complessità e la ricchezza del testo di Sessa, aggiungerò qualcosa proprio sulla relazione Evola-Bachofen, che trovo, per più riguardi, decisiva. Parto da un giudizio di Luciano Pirrotta, secondo il quale Evola si sarebbe servito dei due tipi fondamentali di civiltà, quella tellurico-materna e quella uranico-paterna, dello studioso elvetico, perché “ben si prestavano ad essere recepite entro i canoni di dualismo metafisico a sfondo pessimistico di ispirazione guenoniana”. Adesso, a me pare che questo giudizio non solo non colga l’essenziale ma finisca per perderlo irreparabilmente. Entrando nel dettaglio: Evola ricorda che la sua scoperta di Bachofen risale a “un po’ dopo” la conoscenza (fatta nel ’28) dell’opera di Herman Wirth, L’aurora dell’umanità, e non a caso proprio questi due autori compaiono assieme nell’articolo “Aspetti del movimento culturale della Germania contemporanea”, uscito nel gennaio del 1930 sulla rivista Nuova Antologia. Sempre nella sua autobiografia intellettuale, Evola afferma di aver respinto lo “schema evoluzionistico” di Bachofen perché aveva rilevato “la necessità di introdurre una concezione dinamica e di far corrispondere alle presunte fasi evolutive di un unico ceppo umano influenze opposte portate de ceppi diversi, agenti e reagenti l’una sull’altra”. In sintesi, Evola si rende conto che per spiegare la lotta tra civiltà e razze era indispensabile ‘dinamicizzare’ il quadro tradizionale inserendogli un elemento costitutivamente conflittuale. Per cui, con una di quelle disinvolte operazioni dottrinarie che lo contraddistinguono, Evola modifica sì un aspetto cruciale della concezione di Bachofen, ma per meglio evidenziarne un altro, ancor più essenziale per i suoi scopi. Una conferma ci viene da Sintesi di dottrina della razza, dove Evola può scrivere, proprio ricorrendo a Bachofen: “l’antico mondo mediterraneo ci appare sotto una luce nuova e insospettata: esso ci si palesa come il teatro di una lotta tragica e senza tregua fra culti, ideali, etiche e costumi di ‘razza’ diversa”. Ora, il punto decisivo è che questa concezione non s’accorda affatto con Guénon, smentendone anzi una delle tesi fondamentali, quale quella dell’unità primordiale delle tradizioni. Di conseguenza sembra assai difficile poter inserire, come appunto fa Pirrotta, in maniera coerente e aproblematica le tesi bachofeniane nell’orizzonte dottrinario del ‘metafisico di Blois’.
Chiudo con un ulteriore esempio che a me pare, al riguardo, inequivocabile. In un articolo intitolato “Per una difesa romana dell’Occidente”, uscito nell’ottobre del ’31 su Vita Nova, nella ricerca di principi e valori propri dell’Occidente, “irriducibili a quelli orientali”, Evola afferma che “questo problema non può aver una soluzione positiva se, col Guénon, si creda ad una unità fondamentale della ‘tradizionalità’”. Pertanto, si chiede Evola, “è concepibile una differenziazione originaria in seno a quella spiritualità che farebbe da sfondo ad ogni civiltà di tipo ‘tradizionale’”? La risposta è positiva: esiste addirittura una “opposizione originaria” che non a caso può essere rintracciata proprio in Bachofen, e per la precisione nel conflitto, da lui descritto, tra la “visione demetrico-tellurica” e la “visione uranica, di carattere eroico, solare”.
*“Julius Evola e l’utopia della Tradizione” di di Giovanni Sessa, Oaks edizioni