A pochi giorni dall’anniversario della strage di via D’Amelio Barbadillo ospita una serie di interventi in ricordo di Paolo Borsellino.
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Tra una settimana sono ventuno anni dalla strage di Via D’Amelio. Ricco è il calendario delle celebrazioni, istituzionali e non, e anche delle polemiche sull’opportunità di manifestare divisi (tra destra e sinistra) per ricordare, almeno questo, uniti. Una data che scuote soprattutto il mondo della destra, che era pure il mondo di Paolo. Ci sarà la fiaccolata, la processione (o Marcia) commemorativa a Palermo, saranno tantissimi quelli che metteranno la sua immagine come foto profilo di facebook, e si andrà a dormire contenti, per aver dato un piccolo contributo a tenere sveglio il ricordo di un uomo indimenticabile. Bene. Anzi, benissimo.
Il fatto è, però, che chi frequenta gli ambienti della Chiesa sa che questa, solitamente, si rifugia dentro le processioni quando attraversa un momento di crisi delle vocazioni. Intese non solo come chiamata, ovviamente, ma proprio come impegno attivo nell’Ecclesia, nei movimenti ecclesiali, nelle parrocchie. Insomma, in tutte quelle cose per cui ci si può dire cattolici a ragion veduta, non a là page “sono profondamente cattolico, ma non ho tempo per praticare”. Lo scrivo, sfidando l’apparente inesistenza di un nesso logico, perché temo che con la memoria di Paolo stia finendo così. E lo dico non riferendomi alla memoria generale, ma a quella specifica del mondo della destra che ha in Paolo un punto di riferimento ben preciso da molto prima che diventasse icona mondiale della lotta alla mafia con la sua morte. Il rischio latente è che si stia per passare, o forse si sia già passati, dallo sfogo urlato del “Paolo è vivo e lotta insieme a noi, le sue idee non moriranno mai” dei primi anni, al “Mira il tuo popolo, Bella Signora” dei nostri giorni. Che il ricordo vivo e presente dentro ciascuno sia diventato liturgia da celebrare nella ricorrenza.
È tempo di riflettere su quello che è diventato il mondo della destra: un ricordo malinconico sommerso da un presente da incubo. Chi si avvicinava alla militanza politica lo faceva per sentirsi parte di una storia diversa. Perché c’era quel senso della comunità così forte che intrigava. Molti pensavano di trovare in quella storia politica una conferma alla sue ragioni, trovare delle buone ragioni senza voler avere a tutti i costi ragione. Molti credevano che quel mondo fosse portatore di una diversità valoriale che sarebbe stato in grado di portare al potere, se mai ci fosse arrivato. E poi uno a sedici anni deve decidere da che parte stare, e poi rimanerci per sempre. E in quella parte ci stavano Paolo Borsellino, appunto, Giorgio Almirante, Beppe Niccolai, Tommaso Staiti, in Sicilia Enzo Trantino, Biagio Pecorino, Vito Cusumano, Nino Buttafuoco. Tante, buone, ragioni.
A molti piaceva leggere Ezra Pound, la sua cultura delle idee che diventano azioni apparivano un buon antidoto contro il bizantinismo delle pratiche correnti della politica. Tantissimi guardavano con rispetto la storia catacombale ed orgogliosa del Msi, e pensavano che la nidiata dei giovani, al governo, avrebbe costruito un’altra Italia. Lo avrebbe fatto davvero. Avessero saputo che molti di essi (tra i molti che hanno mantenuto la schiena dritta) aspiravano soltanto a prendere il posto di democristiani e socialisti, peraltro avendo meno spessore politico e senso della misura di democristiani e socialisti, forse avrebbero fatto scelte diverse. Ma del senno del poi sono pieni i cimiteri delle buone intenzioni.
Allora c’è da chiedersi oggi che valore ha, per quel mondo, ricordare Paolo Borsellino. I suoi insegnamenti. Che non sono solo quelli, di inestimabile valore, sulla lotta alla mafia, sull’affermazione della cultura della legalità. Sono qualcosa, se possibile, di ancora più importante. Investono una visione complessiva della società e del modo di starci dentro. Di essere cittadini in una maniera definitivamente diversa da come lo si era stati precedentemente. Portatori di una visione del mondo basata su un complesso di valori non negoziabili. Oggi, che quel mondo iniziato con Tangentopoli sta finendo lasciando seppellita sotto le sue macerie anche la storia della destra, quella nata negli anni “70, a prescindere dai destini individuali, dalle colpe personali e collettive dei suoi protagonisti, bisogna che i giovani, che ancora hanno voglia di fare politica, si chiedano non se riusciranno a sopravvivere ad esso. Perché, fosse solo per ragioni anagrafiche, lo faranno. Ma in che modo. Se da superstiti miracolosamente scampati alle macerie ma rimasti intrappolati in esse, o come uomini capaci di uno scatto d’orgoglio.
E’ tempo di proposta. Di nuove, o se volete, vecchie proposte. Non basta più guardare e riguardare la foto del raduno organizzato dal Fronte della Gioventù a Siracusa nel 1990, quello in cui Paolo diceva “Io posso anche morire, ma non sarò morto invano fino a quando ci saranno ragazzi come voi che porteranno avanti le nostre idee”. Se fino a poco tempo fa i ragazzi della destra sapevano che Paolo stava parlando di loro, è giunto il momento di chiedersi cosa Paolo penserebbe, oggi, di loro. La risposta dipende da ciò che sceglieranno di fare.