Travolti, in tempo reale, dalle notizie sul Coronavirus, con il suo corollario di norme comportamentali e di regole igienico-sanitarie, il rischio è di perdere di vista il senso profondo, antropologico, che l’emergenza virale porta con sé.
Ci sono certamente le vittime ed i contagiati. C’è il dramma delle realtà locali, rinchiuse nelle “zone rosse”. C’è la crisi economica, incalzante e pesantissima: crollano i fatturati, vanno giù le borse. Emergono numeri drammatici, a tratti contraddittori: crescita non esponenziale del contagio si dice da un lato (Ardenio Galletti, docente di calcolo numerico e statistico), pericolo pandemia, con 300.000 mila morti si prevede dall’altro (Luca Ricolfi, sociologo e docente di analisi).
Nell’inconscio collettivo a venire meno è quel senso appagante di libertà senza confini, che ci faceva muovere senza limiti di spazio e di tempo: connessi con il mondo, liberi di delocalizzarci e di delocalizzare produzioni, idee, sentimenti. Proprietari di un mondo peace and love, in cui tutto ci pareva concesso, ubriachi di benessere, con in pugno una carta di credito passepartout, che oggi, con l’emergenza, appare inesorabilmente “scaduta”.
Gli apostoli della globalizzazione continuano a celebrare un mondo (immaginario) senza barriere. Poi però, alla prova dei fatti, sono sempre le frontiere a rimarcare le differenze. E per una volta non c’entra il sovranismo in agguato. Contano poco gli schieramenti e le appartenenze ideologiche. L’emergenza ha i colori delle bandiere nazionali, pronte a selezionare gli arrivi, a respingere gli indesiderati, a selezionare i sani dai contagiati. Tornano i ponti levatoi, retaggio di un Medioevo “oscuro” per definizione: navi respinte, aerei dirottati nel nome della salute pubblica, la quarantena come arma estrema di difesa, che pensavamo appartenere a storie lontane (anche qui vecchi strumenti, utilizzati per le zone colpite dalla peste nel XIV secolo).
Vengono meno le piccole e grandi certezze intorno a cui avevamo costruito i nostri equilibri esistenziali e sociali: l’idea di avere strumenti tecnici e metodologici in grado di affrontare qualsiasi emergenza, di esserci dotati di algoritmi imbattibili, di utilizzare intelligenze, perfino artificiali, capaci di sbrogliare anche le matasse più aggrovigliate. Ora dobbiamo fare i conti con gli ospedali “sold out”. Scopriamo che mancano medici (56.000) ed infermieri (50.000). Negli ultimi anni sono stati soppressi 758 reparti. Ed è doveroso chiedere: di chi sono le colpe se non delle politiche di rigore, targate Ue, che hanno prosciugato i bilanci e le politiche sociali ?
Ed ancora: a che cosa è servita, in questo frangente, l’Europa? Politiche di sicurezza divise e contraddittorie, norme interpretate diversamente da Paese a Paese. Giusto due settimane fa da Bruxelles i commissari per la Salute (Stella Kyriakides) e per la Gestione delle crisi (Janez Lenarcic) dichiaravano: “I virus non hanno confini e possiamo contenere questa epidemia solo se agiamo in maniera coordinata e globale”. Qualcuno se n’è accorto ?
Ci auguriamo che l’onda di piena del virus passi presto. Ma dopo ? Dopo certamente scopriremo di essere tutti un po’ cambiati: più consapevoli dei “contesti”, costretti a fare i conti con i nostri limiti, ma anche con le nostre, spesso inconsapevoli, potenzialità. Spinti, nella crisi, a “fare sistema” dovremo forse tirare le dovute conseguenze, anche politiche, magari ripensando i nostri assetti istituzionali. Parole come competenza, decisione, integrazione sociale non sono solo buone per rispondere all’emergenza. Sono piuttosto fattori essenziali per ricostruire il Sistema Paese e per dare nuove prospettive all’Italia. Se quella del Covid-19 è una “guerra”, la “ricostruzione” dovrà essere adeguata.
@barbadilloit
Maledetta globalizzazione. Ci sono troppi scambi e rapporti economici tra gli Stati, e questo abbattimento delle frontiere, questa internazionalizzazione delle produzioni industriali (es. componentistica elettronica e meccanica), che rendono le singole economie troppo connesse tra loro, costituiscono un ottimo modo per la diffusione di un qualsivoglia virus. Soprattutto se un virus si sviluppa in Cina, che da decenni é la “fabbrica del mondo”, in cui Europa e USA sono i maggiori importatori delle produzioni cinesi, la diffusione nel resto del pianeta é inevitabile. Troppi scambi e rapporti economici con la Cina, e questo perché gli occidentali hanno deciso di deindustrializzarsi e diventare solo importatori e consumatori. Ma anche perché la Cina ha sempre puntato sulle esportazioni e mai sul mercato interno. E inutile che qualcuno poi ribatte “indietro non si torna”, ma dove é necessario bisogna farlo, e la diffusione del Coronavirus ce lo dimostra. Viva le frontiere e viva i dazi, checi salvano da tutto.
Werner. Non è vero. La storia del mondo, anche quando era pochissimo globalizzato, è storia di grandi pandemie. Basti pensare alle pesti nere del ‘300 e del ‘600 e ad un’infinità di altre, a cominciare dalla terrificante ‘spagnola’ che fece tra i 50 ed i 100 milioni di morti in tutto il mondo, comprese remote isole del Pacifico. Mia zia l’ebbe ai 9-10 anni, sopravvisse, ma rimase pressochè sorda…Non guardava in faccia nessuno. L’ebbe il re di Spagna Alfonso XIII(che guarì) ed il fratellastro del Duca d’Aosta, il conte di Salemi, che morì prima di compiere 30 anni..Basta documentarsi un po’.
Non è diventando cavernicoli che ci salveremo…
L’UE è quello che è, lo sappiamo. Però occorre anche un minimo di coerenza. Non si può criticarla ferocemente tutti i i giorni, invocare una Brexit italiana e poi aspettare che ci risolva i problemi. L’UE siamo anche noi, non un’entità astratta…