A primo sguardo sembra un concorso letterario. C’è un tema, un limite sugli inediti, una giuria e un premio finale. Il poetry slam, però, fa blasone del vivere una poesia che non trova coronamento – più spesso epilogo – nella pubblicazione cartacea, e che anzi altro non è che versi legati all’attimo. È durante la declamazione che avviene la poesia, ed è nell’esperienza del pubblico che rimane.
Le regole della competizione sono ferree, atte ad evitare che la poesia venga oscurata dallo spettacolo: non si possono indossare costumi, usare basi musicali, insomma non ci si può avvalere di altra forza che non sia quella della parola.
Però nessuno più legge poesia, nessuno più la compra. È la nenia professorale di chi lamenta le basse vendite dei libri, o l’irrilevanza dei poeti sulla scena culturale – anche i più premiati sono di fatto sconosciuti al grande pubblico.
I poeti vivi, però, la pensano altrimenti. La vera poesia – ed è il poeta contemporaneo Garcìa Montero a rivelarlo – non ha paura della propria morte, anzi, ne mette in versi l’annuncio. La sua Ballata sulla morte della poesia svolge un paradosso, un cortocircuito nel quale le cause sono identiche agli effetti: “le parole si annoiano” e, abbandonate, “respirano con difficoltà”.
È infatti impossibile che la poesia muoia. Se succedesse “l’inesistenza prenderebbe il posto dell’esistenza”; il giudizio del critico letterario Alfonso Berardinelli, a proposito delle voci poetiche contemporanee, è però anche spiegazione del perché, nel poetry slam, libera da stampe e da vendite, la poesia sia cosa viva.
E in Germania il poetry slam è roba seria. Non sono i locali di nicchia a organizzarne i campionati, ma le biblioteche pubbliche fanno a gara ad accaparrarsi i contest. La differenza di atteggiamento la fanno già le definizioni. A Saarbrücker, nello sforzo di definire il poetry slam – e nel fastidio tutto tedesco di utilizzare anglicismi – il campione venticinquenne Johannes Warnke ne parla come di una “competizione letteraria” – literarischer Wettstreit.
Si dice che il poetry slam, nella sua codifica contemporanea – tre minuti di tempo per ogni poeta, cinque giurati sorteggiati tra il pubblico – sia nato venti o trent’anni fa negli Stati Uniti. Ogni lingua pretende per sé una variante; in Italia il tempo a disposizione del poeta è cinque minuti – per far spazio alle vocali – mentre in Germania fino a sette – là si affermano poeti con esibizioni in coppia.
Il sapore proprio del poetry slam è però nel tono. I versi sono intrisi di sarcasmo, così come di critica della società. Non è una poesia in cui spadroneggia un io piegato su se stesso – piaga della poesia contemporanea – ma l’osservatore che guarda al di fuori, giovane e attento, e dalla sorpresa delle cose scaturisce un verso limpido, semplice.
Nella storia dell’umanità il poetry slam è però erede diretto dei combattimenti poetici degli antichi arabi. E poesia, nell’Arabia felix, è blasone, vessillo di fierezza.
Dall’unione dello spirito contemporaneo con l’eredità mediorientale, la slam, in Germania, si fa lavoro. Il campione di versi è il Sultano di Thurgau, nome d’arte di Jusef Selman, ventenne, genitori iracheni, che nell’anno preparatorio agli studi di medicina si finanzia con le sfide di slam e scrivendo poesie su commissione.
Nomi e circostanze che paiono traslati dalla vita di Baghdad nell’età dell’oro, perché la vita del verso è una soltanto. Giusto una, per giammai annoiare la parola.
Da Il Fatto quotidiano del 17 febbraio 2020