La politica demografica è stata nel corso dei secoli, e soprattutto nell’antichità (vista come protezione dell’etnia), la priorità delle classi dirigenti che fondavano sull’incremento della popolazione la forza dei loro Stati sia per quanto riguardava il reclutamento militare (difesa della città o dell’Impero) sia per ciò che concerneva la forza-lavoro specialmente in agricoltura e nella costruzione delle imponenti difese murarie, oltre che in tutte le opere di edilizia al servizio della comunità, dai canali alle strade. Opere gigantesche che ammiriamo nelle nostre prossimità i possenti acquedotti ed i maestosi templi glorificanti la sacralità degli Dèi.
Tutto era possibile purché masse di esseri umani fossero disponibili ad impegni gravosi sotto il profilo fisico e capaci sotto quello progettuale. L’incanto dell’antichità giunto fino a noi rimanda, per chi riesce a coglierlo, alla politica della natalità raccomandata da Platone, narrata da Esiodo e ricordata nel nostro tempo da Guenther. Una sorta di epica per la quale il numero costituiva la potenza e l’arte del discernimento s’incaricava di ingentilirla con l’apprendimento delle fonti del sapere, sicché immaginando le decine di migliaia di operai, progettisti, scultori, pittori ed inventori di macchine geniali per la costruzione della dimora dell’imperatore Adriano a Tivoli, ad esempio, viene in mente che se Roma non avesse potuto disporre di una massa di manovra, efficiente, prestante ed intelligente, noi non avremmo avuto la ricostruzione in miniatura nel cuore dell’impero del porto di Alessandria sul quale Adriano giocava con l’acqua ricordando i suoi giorni felici in compagnia di Antinoo, mentre un sistema di spazi concentrici, sotterranei e sopraelevati offriva lo spettacolo di una città chiusa, inviolabile e guardata a migliaia di inservienti che proteggevano la pace dell’imperatore intento ad imprese militari non meno che a costruzioni inimmaginabili duemila anni dopo, come il Vallo di Adriano. Tutto era possibile con l’intelligenza e le braccia. La costruzione della “Città antica”, suggestivamente descritta da Fustel de Coulanges, rimanda allo sforzo di uomini e donne che si succedevano per decenni nel completare ciò che non era mai completo, senza soluzione di continuità perché i figli seguivano l’opera dei padri e dopo di essi ne venivano altri a misurare il tempo nella rappresentazione di ciò che nasceva per essere eterno.
Lo spopolamento delle nostre contrade
Oggi che non si fanno più figli e quando si fanno non vengono quasi mai accolti come una benedizione, impoveriamo le nostre contrade popolate da meccani mossi da pochi e sparuti individui che chissà da dove colpiscono perfino popolazioni inermi (altro che “tempeste d’acciaio”, vili tempeste invisibili apportatrici di morte piuttosto) senza farsi vedere, lontani migliaia di chilometri. Ed ai meccani affidiamo le nostre fragili esistenze in tutti i campi perché non c’è abbastanza gente disponibile: tutto è predisposto affinché le braccia, le mani, le dita, gli occhi, le labbra impercettibilmente si muovano, tocchino, sfiorino una macchina dalle sembianze mostruose per approntare qualsiasi opera di cui l’uomo ha bisogno per vivere la sua vita aliena nella gigantesca Heliopolis consegnataci dal pauperismo intellettuale illuministico e dalla religione della negazione della grandezza che officia il “pensiero unico” dal quale discende e ci consegna la credenza secondo la quale più le culle sono vuote, meglio si sta. Ma le vuote culle sono bare piene di niente. Esse certificano il trionfo dell’anemia demografica, come chiama la catastrofe della denatalità la giovane studiosa, biologa e nutrizionista Cristina Coccia.
La desertificazione delle culle
In un libro che altrove ed in altri tempi probabilmente, avrebbe acceso discussioni e riflessioni sul nostro destino e sulla nostra inevitabile estinzione, Coccia scrive L’anemia demografica (Ar, pp.72, euro 10,00) con la freddezza di un anatomopatologo (e chissà perché mi viene in mente Gottfried Benn) che si applica a sezionare i residui della civiltà e scopre che l’anemia, malattia del sangue che comporta una riduzione patologica dell’emoglobina, e dunque una ridotta capacità sanguigna di trasportare ossigeno, è il morbo che ha colpito la fertilità. Anzi, ha determinato l’infertilità. Ha provocato la desertificazione delle culle. Ha isterilito i ventri delle giovani donne e l’incapacità dei maschi a nutrire l’ambizione di trasmettere un’eredità, dai cromosomi al nome.
L’Italia (ma il fenomeno è europeo) è un aggregato di cellule stanche, nella migliore delle ipotesi pigre, incapaci, sbandate. “Nel nostro sangue demografico – scrive la Coccia – si è verificata una lacerazione del tessuto sociale che ha provocato, nel tempo, un distacco tra le componenti che mantenevano il nostro gruppo etnico abbastanza coeso e sano”. L’emorragia demografica rischia di provocare l’estinzione, a lungo andare, del nostro popolo, della nostra cultura, della nostra memoria. Una catastrofe della quale – ma non ci sorprende – la politica non si occupa o finge di occuparsene soltanto “economicamente” immaginando che la “sostituzione” con gli immigrati risolva i problemi. Ma anche questi, una volta a contatto con l’ideologia che “uccide i popoli”, il consumismo, si adatteranno all’occidentalismo che nega la riproduzione e non faranno più tanti figli quanti ne fanno ora. E poi non tutto si può ricondurre ai valori economici.
È vero che la denatalità è figlia dell’economicismo, del carrierismo, dell’egoismo, della negazione di se stessi nell’acquisizione di materialità oggettive che impediscono la cura e l’attenzione allo sviluppo di un figlio, ma non è estranea una sorta di patologia della rinuncia a perpetuarsi. Il determinismo materialista, l’abortismo criminale (quando non ricorre una patologia accertata) come forma di eliminazione di un problema che potrebbe inficiare la leggerezza dell’esistenza, il rifiuto a immaginare l’avvenire sono gli elementi inescusabili del declino demografico che, come scrive Coccia , “molti europei sono degenerati perché non hanno più cura della vita, della generazione, della salute dei propri popoli. Accettando passivamente tutto quanto proviene dall’esterno, dagli altri, non si riesce a riconoscere il vicino come proprio simile né ad avvertire il senso di appartenenza ad una stirpe”.
Le responsabilità oggettive del “pensiero unico”
Il “pensiero unico” è responsabile della denatalità. Almeno indirettamente. L’immiserimento spirituale e morale ha generato l’omologazione verso il basso. Il pensiero critico si batte da posizioni minoritarie, ma per quanti sforzi si facciano è difficile togliere una play station dalle mani di un ragazzo per mettergli davanti un testo di poesie. Perché il sistema è intrinsecamente modellato affinché l’ambizione di una vita da fellah o da mimicry, come diceva Spengler, è quella che gli occidentali hanno adottato avendo come fine l’happy end, l’immortalità di una serata ricca di gadget come droga e sesso a basso costo. Rinunciare a questa prospettiva per assumere la funzione di vir, in senso classico, è piuttosto complicato. Le strutture formative che aderiscono al pensiero unico inoculato, diffuso, espanso dai padroni del potere, da coloro che devono vendere prodotti standardizzati perché l’ugualitarismo ideologico fiorisca favorendo l’egualitarismo finanziario e globale, non hanno interesse a differenziare l’offerta.
Come possono giovani in età da mettere su famiglia immaginare che c’è un domani da costruire e lo si può fare soltanto procreando piuttosto che spiaggiarsi sull’inutilità di una vita che si consuma giorno dopo giorno senza nessuna speranza? Il massimo è il soggiorno in sontuosi resort ai Caraibi o nel Pacifico per dire di aver nuotato in acque calde in mezzo ai pesci. Dove i pescecani non appaiono o se si mostrano lo fanno sotto sembianze gradevoli.
Cifre agghiaccianti
Dal 1 gennaio dello scorso anno, ci informa la Coccia, la popolazione ammontava a 60 milioni e 391 mila residenti, oltre 90 mila in meno rispetto all’anno precedente (con una diminuzione dell’1,5 per mille). La popolazione cittadina è scesa a 55 milioni e 157 mila unità. Nel 2018 abbiamo avuto 449 mila nascite (9 mila in meno dell’anno precedente), mentre i morti sono stati 636 mila, 13 mila in meno rispetto al 2017: non perché la vita si è allungata, ma per il semplice fatto che le malattie si sono cronicizzate grazie alle scoperte farmacologiche. E l’incidenza sulla qualità della vita è tutta da ripensare, anche in termini economici. L’Italia ha l’indice di natalità più basso d’Europa. Gli aborti sono 87 mila all’anno, le famiglie con figli appena 11 milioni; quelle senza figli 14 milioni. Valutando questo dati, nel 2100 la popolazione italiana si stabilizzerà sui 49 milioni di abitanti; la Nigeria che ne conta oggi 197 milioni, ne avrà 752 milioni; il Bangladesh l’anno prossimo conterà 170 milioni di abitanti, ma nel 2050 ne avrà 202 milioni e nel 2100 si stabilizzerà intorno ai 169 milioni di unità. Cifre agghiaccianti. L’Europa sarà sul punto di sparire tra pochi decenni. La Coccia si domanda: “Sarà possibile l’accoglienza nei nostri ambienti di queste masse di stranieri, soprattutto di africani?”. È un problema di risorse che si pone; è l’ecosistema che dovrà dare delle risposte; è l’ecologia che rimanda quantomeno ad una perplessità della quale bisogna tenere conto. E poi la diffusione delle megalopoli, con tutto quel che comportano in termini di vivibilità, lo sradicamento dalle campagne – fenomeno ampiamente in atto – unito ad una qualità della vita assolutamente deficitaria sotto il profilo igienico-sanitario, mentre non si tiene conto della diffusione delle malattie che s’innestano sul nostro già precario patrimonio genetico, dovute all’alimentazione soprattutto, che generano obesità infantile, diabete, malattie cardiovascolari, sono problemi davanti ai quali non si può retare inerti o assumendo posizioni che hanno l’effetto di una camomilla scaduta.
Insomma, mangiamo male e viviamo peggio, respiriamo ai limiti della sopportazione e non ci accorgiamo che malattie fino a poco tempo fa ritenute debellate per sempre riappaiono non tanto “misteriosamente”.
Un male incurabile?
Come sottrarci alla decadenza? “Seguendo una disciplina interiore ed esteriore – scrive la Coccia – che ci permetta di agire prima su noi stessi, poi nelle piccole comunità, nei comuni di pochi abitanti, quindi nelle piccole città e, infine, sul terreno della politica nazionale ed europea, per ripristinare i nostri sistemi di difesa etnica”.
Ragionevole. Ma, osservo : se gli altri, gli stranieri, gli immigrati, coloro che vivono in altre dimensioni, che vivono anche male oltretutto, figli ne fanno e sono destinati a diventare massa di manovra e di conquista inevitabile di spazi e di ricchezze, il problema è tutto italiano, europeo, occidentale perché siamo noi ad aver perso il filo che tiene unita la vita. Abbiamo negato il passato distruggendo la memoria; abbiamo abolito il presente soltanto perché esiste nell’attimo in cui compiamo qualsiasi atto che soddisfi le nostre vanità o ingordigie; abbiamo scacciato dal nostro universo il futuro dicendo che non ci appartiene e che con noi morirà ogni cosa perché questo è il risultato della cultura dominante, del “pensiero unico” che si fonda sull’attimo. Dunque i figli degli altri saranno maree umane che ci sommergeranno senza nessun inganno e neppure malevolenza dal momento che noi abbiamo rinunciato a perpetuarci, a vivere per chi verrà. Il legame generazione si è spezzato. Il filo si è interrotto. Riprenderlo, a meno di rivolgimenti epocali, sarà pressoché impossibile. Certo, qualcosa si può fare, come indica con intelligenza e grande generosità Cristina Coccia. Ma al momento il nostro destino è l’anemia. Ed è incurabile.
Un male tutt’altro che oscuro che lascia vuote per ora le culle l’Occidente, domani l’Occidente stesso che sarà probabilmente un’altra cosa. Le nascite regrediscono, i popoli muoiono, le civiltà s’inabissano nelle profondità della storia. Senza questa consapevolezza non c’è speranza. La politica viene opportunamente invocata dal prefatore di questo drammatico e chiarissimo libro, Massimo Pacilio. Ma vedete qualcuno che si occupa di come curare l’anemia demografica, di guarire da questo morbo che ha ridotto in polvere grandi civiltà del passato soltanto perché ad un certo punto della loro storia smisero di credere in se stesse? Una rivoluzione culturale potrebbe dare qualche speranza. Almeno credo.
Il vuoto lasciato da qualcuno viene sempre riempito da qualcun altro. Nutro seri dubbi sul fatto che gli immigrati e i loro discendenti assumeranno il nostro stile di vita nichilista e decadente (i famosi “valori occidentali”), e rinunceranno a perpetuarsi, e questo discorso lo faccio soprattutto in riferimento agli islamici. Lo scenario più probabile é che noi ci estinguiamo ed assieme a noi sparisce il nostro stile di vita decadente, e a quel punto la sostituzione etnica é fatta. L’unico modo che noi abbiamo per scongiurare la nostra sparizione dalla faccia della Terra, é rigenerarci sul piano culturale, morale e spirituale abbandonando l’anticultura liberalprogressista, fatta di materialismo, edonismo, relativismo, nichilismo e m**da varia. Ma questo va fatto il prima possibile, altrimenti sarà troppo tardi. Dobbiamo recuperare schemi culturali, valori, usanze, tradizioni e altro ancora, che appartenevano ai nostri avi. Tornare indietro non é possibile, ma correggere le storture del passato e del presente, recuperando il meglio che c’era prima per costruire un futuro migliore sì.
Illusorio. Non succederà. Le lancette dell’orologio non vanno mai all’indietro. Possono entrare in crisi i radicalismi giacobini, marx-leninisti, maoisti, polpottiani, anarcolibertari ecc. ma non i valori nuovi comunemente accettati. Nel 1821, appena 6-7 anni dopo la Restaurazione dei Savoia negli Stati Sardi, ci furono i moti costituzionalisti, con oltre 2000 implicati. Al 99% nobili. Ma come? La Rivoluzione aveva tagliato la testa a tanti loro parenti, amici, ai congiunti di classe e loro, i privilegiati dalla Restaurazione, proprio ai valori primari della Grande Révolution volevano tornare? Rischiando condanne capitali, a detenzioni ed esilî?