Da questa mattina nelle edicole italiane ci sarà il nuovo numero di Cultura Identità che sarà dedicato al tema scottante della magistratura e delle giustizia italiana. Ne abbiamo parlato con il direttore del giornale, Alessandro Sansoni.
Sul tema giustizia si sono già versati fiumi d’inchiostro, finendo per incastonare il dibattito in una trincea di luoghi comuni, l’un contro l’altro armati. Perché Cultura Identità ha deciso di prendersi il rischio di affrontare un argomento così spinoso?
Perché è un tema che, come dimostrano le cronache dei giornali in questi giorni, resta di grandissima attualità nel nostro paese. Già di per sé l’amministrazione della Giustizia è una questione culturalmente e politicamente essenziale, ma in Italia diventa addirittura decisiva, sia a causa delle lentezze del sistema, che incidono fortemente anche sull’economia del paese (soprattutto per quanto concerne la giustizia civile), sia a causa di un rapporto sempre più conflittuale e squilibrato tra potere giudiziario e potere politico: un problema che ci portiamo dietro da oltre 25 anni, dai tempi di Tangentopoli. Purtroppo, la subalternità culturale della Sinistra nei confronti della Magistratura e le grane giudiziarie di Silvio Berlusconi, che inevitabilmente portavano ad accusare i suoi Governi di conflitto d’interesse ogni qual volta provavano ad occuparsi di questo settore, hanno creato una empasse molto grave, con contrapposizioni di natura ideologica.
Col tempo, poi, è emersa nel centrodestra una certa diffidenza, quando non un’ostilità preconcetta, nei confronti dei magistrati, e una conseguente difficoltà a dialogare con loro.
Ecco, noi siamo convinti che non sia possibile riformare il sistema giudiziario italiano contro la Magistratura, ma soltanto insieme ad essa, nella consapevolezza, non retorica e di maniera, che la maggioranza dei magistrati italiani ha un orientamento garantista, liberale, attento alle ragioni dello stato di diritto e dell’interesse nazionale, persino dei valori popolari e cattolici. Insomma questa diffidenza va superata e bisogna avviare un dialogo strutturato nel merito delle questioni.
Si parla molto di prescrizione, si parla ancora di separazione delle carriere e responsabilità civile del magistrato; ma sfogliando le pagine del giornale pare che le questioni più scottanti siano ancora altre…
Si, abbiamo trattato di questi temi “storici” e, sulla prescrizione, con un’intervista al giudice Antonio D’Amato, eletto recentemente al CSM, abbiamo provato a spiegare perché se si vuole raggiungere un risultato concreto sui tempi dei processi siano altre le misure da adottare e non certamente l’abolizione di un istituto di civiltà giuridica fondamentale come la prescrizione. Ma tra le altre cose interessanti che troverete su CulturaIdentità c’è il problema sollevato da Nicolò Zanon, ordinario di diritto costituzionale a Milano e giudice della Corte Costituzionale nominato da Giorgio Napolitano, e dall’ex sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano a proposito dell’enorme aumento dell’influenza della giurisdizione sulla sfera politico-legislativa. In sostanza, il rapporto tra Magistratura e Politica non è inficiato tanto dalla cosiddetta “giustizia ad orologeria” (che pure è un problema), ma dall’azione di supplenza che il potere giudiziario esercita in numerose occasioni, sottraendo spazi di decisione e di confronto al dibattito pubblico e all’azione politica. Gli esempi sono molteplici, a cominciare dalla continua ingerenza dei TAR su lavori e bandi pubblici, ma ancora più grave è ciò che accade sui cosiddetti temi eticamente sensibili. Spesso si parla di una politica “incapace di stare al passo coi tempi”, di legiferare su questioni di interesse generale, dimenticando che anche l’assenza di una legge su materie che magari attengono alla sfera privata può essere una scelta meditata e legittima in una democrazia moderna. Anche sulla gestione dei flussi migratori abbiamo visto come spesso la giurisdizione si sia intromessa, pretendendo di dettare la linea politica del Governo. A tal proposito, è lo stesso principio costitutivo dello Stato di diritto, con la separazione dei tre poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – a essere messo in discussione, con effetti potenzialmente dirompenti sulle nostre istituzioni democratiche e sulla sovranità popolare.
Da questo punto di vista il richiamo alla Costituzione e ai suoi precetti è essenziale e non può essere subordinato alla convenienza politico-ideologica.
Si può affrontare l’argomento in una chiave che sia ancora squisitamente “domestica”, senza tener conto dell’evoluzione della dimensione sovranazionale acquisita dal diritto?
No, non si può e qui sta il Nodo di Gordio da sciogliere, come in una certa misura ha rimarcato nel suo intervento Mantovano. L’azione di supplenza giurisdizionale, su certi temi, è legittimata – costituzionalmente, ma anche al di là del dettato costituzionale – dai trattati internazionali sottoscritti dall’Italia, in particolare in sede UE o di diritti umani, che immediatamente assurgono al rango di fonti giuridiche di livello costituzionale e, dunque, superiori alle leggi ordinarie. Questa peculiarità della nostra Carta Costituzionale deriva dalla Guerra Fredda e dalla necessità dell’epoca, tutta politica e geopolitica, di assicurare la nostra appartenenza al campo atlantico, attraverso la nostra adesione al Trattato NATO e ad altri dispositivi. Oggi, invece, il campo si è allargato, legando di fatto le mani alla volontà popolare in molteplici settori.
Se il nostro governo sottoscrive il Fiscal Compact in sede UE, poi quell’accordo ha automaticamente valore costituzionale, per fare un esempio. Se lo fa la Germania, invece, la Corte Costituzionale tedesca ne verifica prima la coerenza con la Legge Fondamentale della Bundesrepublick e, in caso contrario, non ne permette la ratifica.
Se il potere giudiziario può appellarsi a trattati sottoscritti a livello internazionale, magari in altri momenti storici, per impedire al Parlamento o al Governo di assumere certe decisioni di indirizzo politico, è chiaro che la volontà politica si burocratizza e viene meno la possibilità per gli elettori di far sentire la propria voce su questioni dirimenti, come i cosiddetti diritti civili o la gestione dei flussi di migranti. Di fatto c’è il rischio che si saldi una “santa alleanza tra burocrazie”, quella tecnocratica di Bruxelles, ad esempio, e una parte della Magistratura italiana di orientamento globalista.
Focalizzare l’attenzione su questi aspetti ci consente di capire meglio cosa sta accadendo in paesi come la Polonia e l’Ungheria, accusati, nelle scorse settimane, di voler mettere il bavaglio alla Magistratura, quando il tema, semmai, sono le catene a cui si vuole assoggettare la politica e la volontà popolare che dovrebbe esprimerla, in particolare su questioni di natura etica, geopolitica o di costume.
Su quale modello andrebbe intessuto un ritrovato rapporto tra politica e magistratura?
In una democrazia moderna, fatta di pesi e contrappesi, l’unico modello possibile è quello della separazione dei tre poteri. L’equilibrio tra essi è, come tutte le cose umane, di natura dinamica e non può mai essere raggiunto definitivamente. Eppure va ricercato. Oggi lo squilibrio è tutto a discapito del potere legislativo e, in parte, di quello esecutivo e un’azione correttiva va messa in campo, nella consapevolezza che si tratta di una criticità di cui sono consapevoli gli stessi magistrati, in quanto cittadini, e la cui risoluzione porterebbe benefici innanzitutto alla credibilità della Magistratura. Che è un bene prezioso per tutti.
La Destra italiana dovrebbe, quindi, utilizzare il tempo a disposizione da qui alle prossime elezioni, che ne decreteranno la vittoria, per porre le basi di un dialogo proficuo con l’ordine giudiziario.