Il Napoli perde in casa contro la Fiorentina e si ritrova più vicino alla zona retrocessione che all’olimpo Champions. Non è servito il coraggio di Rino Gattuso che, detto sottovoce, ha pur patito attimi di confusione. Ma chi non ne avrebbe, oggi, nello spogliatoio (infestato) della più grande delusione di questo campionato di Serie A?
La sfortuna non basta a spiegare quello che sta accadendo, nemmeno il vecchio refrain “arbitrale” rappresenta più quel comodissimo refugium peccatorum (forse abusato) dalla dirigenza azzurra. Si è rotto il giocattolo, contro il Salisburgo. La questione delle multe, il ritiro “rifiutato”, la rivolta dei calciatori. Il profluvio di lettere tra legali rappresentanti di giocatori e società. Un incantesimo burocratico che ha liberato forze oscure e paralizzanti. Il mercato che è arrivato e che avrebbe dovuto essere una rivoluzione, un esorcismo. Demme e Lobotka, certo. Finora oltre le celebrazioni di prammatica e le captationes benevoletiae (Demme tifoso del “Napoli” da Lipsia è oleografia perfetta da social), staremo a vedere se saranno rose o se ci si ritroverà con gli ennesimi Machach e Younes. Il rito esorcistico, per ora, pare tutt’altro che compiuto.
E intanto Ringhio Gattuso fa quello che può. Cioé prendersi la responsabilità di tutto. Perfino di quella paperaccia di Ospina. A esser cattivi verrebbe da dire che De Laurentiis lo abbia preso proprio per questo. Gattuso non conosce altro linguaggio che quello della grinta e della lotta. Posseduto dal wut del guerriero, è nudo di fronte ai bizantinismi del post-partita. Servisse a scuotere la squadra, si caricherebbe sulle spalle anche il fardello del cambiamento climatico, si prenderebbe la responsabilità della scomparsa dei paguri australi: li caccerebbe uno per uno, in diretta Facebook. Il coraggio però, da solo, non basta. Perché in campo vanno i giocatori. Oggi i giornali raccontano di un confronto serrato tra il tecnico e la squadra. C’è chi tuona: finalmente lo ha capito anche l’allievo il busillis che ha convinto un maestro aziendalista come Ancelotti a togliere le tende.
Ci sono i fantasmi a Castelvolturno. Il tintinnar delle catene si sente fino al Vomero e a Ponticelli. Lo zolfo del sarrismo, il 4-3-3, lo “spettacolo” che poi era quello di contendere il tricolore alla corazzata Juventus più che scambiarsi duecento passaggi a partita. Chi volesse esser cattivo potrebbe sussurrare che, prima con Higuain e poi ingaggiando il Sommo Profeta, la Juve abbia stravinto una battaglia psicologica prima ancora che calcistica contro i rivali partenopei: chi vuol vincere deve venire alla Continassa.
Adesso bisognerebbe aver la pazienza di ricominciare tutto da capo. E farlo in un calcio che non ammette alcun passo falso: basta un anno fuori dalla Champions e son dolori, citofonare Milan. Se non è un suicidio, poco ci manca. Lo spettro, un altro e più doloroso ancora: è quello dei disastrosi anni ’90, del post-Maradona. Certo, allora c’erano i debiti. Oggi c’è il famigerato fatturato.