Che l’esodo sia uno dei drammi più ricorrenti nella storia dell’umanità lo testimoniano molte pagine non solo letterarie ma anche sacre. Dall’Esodo inteso come secondo libro de La Sacra Bibbia e come sura coranica (Al-Hashr) a quello istriano portato in scena in questi giorni dalla tournée di Simone Cristicchi, insomma, il passo non è propriamente breve.
E il tentativo dell’inserto culturale La Lettura del Corriere della Sera di veicolare il titolo dell’intervista a Franco Degrassi come incentrata sul valore positivo dell’esodo come «motore della civiltà» pare piuttosto mal riuscito: in primis perché nel testo della conversazione emerge – e non poteva essere altrimenti – tutt’altro; in secondo luogo poiché quasi mai gli epiloghi degli esodi portano alla terra promessa, molto più spesso avviano gli esuli ad una vita in esilio, per dirla con Enzo Bettiza.
Tra gli esodi più dimenticati, controversi e ancor poco conosciuti c’è certamente quello dei 350.000 italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, consumatosi negli anni quaranta del secolo scorso (e non solo). Uno di quegli esodi in cui «la strategia esplicita della “pulizia etnica” si compenetra con la dottrina implicita della “pulizia culturale”».
La storia di quest’esodo è triste e fulminea: il 10 febbraio 1947 con il Trattato di Parigi l’Italia perse parecchi territori dell’Istria e della fascia costiera. Molte famiglie italiane furono costrette a lasciare le proprie case, le proprie città natali, le proprie radici. Nessuna terra promessa per loro, solo difficoltà, freddo, paura, insicurezza, tanta nostalgia. E morte: già dal 1943 in Istria furono migliaia le vittime italiane massacrate dagli slavi di Tito e gettate nelle locali cavità carsiche dette foibe.
E’ a loro che si aggiungono quei 350.000 giuliano-dalmati costretti ad abbandonare le proprie terre dell’Adriatico settentrionale vittime anch’essi di una volontà politica di «azzerare l’impronta secolare di civiltà urbane o rurali ritenute aliene, nell’intento di cancellare radicalmente, col ferro e col fuoco, culture e tradizioni diverse dalle proprie».
Va infatti ricordato – e ben fa Claudio Magris a farlo – che Tito e il suo esercito «vennero non a liberare, come ancora si scrive in alcuni libri di storia italiani, ma a occupare Trieste e l’Istria» e «a combattere la Resistenza italiana democratica».
Il prezzo lo pagarono gli italiani che «da Fiume e da Zara erano nati in terre italiane, diventate tali dopo i Trattati di Rapallo del 1920 e di Roma del 1924» ma che erano «da secoli abitate da gente italiana» poiché in quei microcosmi, per dirla proprio con Magris, alla colonizzazione romana era seguita nel Medioevo e sino alla fine del 1700 quella veneta. E poi oltre anche negli anni del Risorgimento poiché, ad esempio, «dal 1779 Fiume è stata un “corpo separato” del Regno d’Ungheria […] e così, i fiumani di lingua italiana sono stati fieri patrioti a un tempo italiani e magiari e hanno declinato la loro italianità in termini nettamente volontaristi difendendola con intransigenza sul piano culturale».
Di ciò non tenne propriamente conto la strategia del Pci che invece avrebbe voluto annettere non solo l’Istria ma l’intero Friuli Venezia Giulia «alla Federativa Jugoslava tra le braccia della “grande madre” sovietica» in ortodossia a quanto sostenuto dalla Direttiva del Comitato Centrale Comunista e dalla concernente corrispondenza riservata tra i comandi delle brigate garibaldine e i responsabili delle federazioni comuniste di Trieste, Gorizia e Udine.
Lo stesso Togliatti qualche mese dopo ribadiva con orgoglio che «nella Venezia Giulia operano unità partigiane dell’esercito di Tito, e vi operano con l’appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s’intende, contro i tedeschi e i fascisti [..] E’ assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito».
Peccato che la situazione fosse del tutto diversa e che volontariamente non fu compresa come testimonia il consapevole e strumentale silenzio calato su questo esodo e sulle tristi vicende ad esso collegate: solo il 30 marzo 2004 la Legge n. 92 istituì il Giorno del Ricordo per conservare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati del secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.
Il dramma degli esuli italiani «è stato a lungo ignorato e rimosso; non solo da parte della sinistra per ignorante settarismo ideologico, ma di tutta l’Italia. Che negli anni Cinquanta non era un Paese comunista – non lo erano i governi democristiani o quadripartiti, non lo erano i grandi giornali, la Rai, la maggior parte delle case editrici».
Una damnatio memoriae, però, che continuò ben oltre gli anni considerati da Magris e che ancora all’abbrivio del Terzo Millennio suscitò non poche polemiche dagli epigoni togliattiani quando ad esempio 75 storici reagirono stizziti alle incontrovertibili parole di Luciano Violante che finalmente da Presidente della Camera ammise come «nella storia scritta dai vincitori e nelle convenienze che segnarono la guerra fredda e che comportavano una particolare condiscendenza per Tito, le foibe dovevano ‘scomparire’ dalla memoria nazionale».
In riferimento all’esodo istriano non stupisce, quindi che ancora oggi «pochi sanno che questa terra ha avuto la deportazione, l’esodo e l’esilio. Non so se nel resto d’Italia si sa che questa terra è quella che ha pagato di più in termini di vite umane, di violenze. Non tutti sanno che la sconfitta della Seconda guerra è stata pagata qui e solo qui. Qui c’è stato un dolore non condiviso dall’altra parte d’Italia. Un dolore che si è separato e che è stato separato».
E che merita di essere raccontato, senza paura di dare agli articoli che lo fanno il titolo che meritano se non vogliamo continuare ad essere, oggi come ieri, “stranieri a casa”.
I titini, che prima di essere comunisti erano soprattutto panslavisti, avrebbero occupato la Venezia Giulia e infoibato migliaia di italiani, anche se il PCI fosse stato contrario. Per loro l’appartenenza etnica contava prima di quella ideologica, diversamente dai comunisti italiani per il quale era il contrario.