Mai più funerali in Chiesa per i mafiosi. Antonino Raspanti, vescovo di Acireale, mette tutto nero su bianco:“Sia privato delle esequie ecclesiastiche – si legge nel decreto episcopale – in tutto il territorio della Diocesi chi è stato condannato penalmente per reati di mafia, con sentenza definitiva, dal competente organo giudiziario dello Stato italiano, se prima della morte non abbia dato alcun segno di pentimento”.
Una presa di posizione dura, durissima. Ma anche doverosa e giusta. A cui ha fatto seguito, nel giro di pochi giorni, l’iniziativa Giuseppe Fiorini Morosiini, il frate-vescovo di una difficile realtà calabrese come quella di Locri-Gerace, che ha disposto la destituzione, in caso di sentenza definitiva di condanna penale, per quei “fedeli, laici o religiosi o chierici, che fanno parte di Confraternite o di altre Associazioni pubbliche diocesane”.
Due provvedimenti che hanno come primo obiettivo quello di fare chiarezza, di porre un discrimine insuperabile: chi appartiene alla Chiesa di Cristo non può giurare fedeltà alle ‘ndrine o alle cosche. O di qua o di là, dunque. Non si ammettono fraintendimenti e neanche ruffianerie o compiacenze. Sì, perché è questa strana commistione culturale tra sacro e interesse criminale, quella zona grigia, che si vuole andare a smantellare. Certo è che non bastano dei semplici decreti a trasformare dei contesti territoriali complessi dove realtà criminali altrettanto complesse hanno trovato pieno sviluppo.
La mafia, infatti, non rappresenta un’associazione a delinquere come le altre, finalizzata ad una burocratica organizzazione degli operatori del settore criminale. La mafiosità è una idea dell’organizzazione sociale, è un complesso di valori, una realtà – nella sua accezione sfigurata – altamente istituzionale. Dotata, peraltro, di una sua particolare mistica che rimescola molti degli elementi cristiani in favore di una religiosità votata al Male.
Stare con la Mafia è, infatti, una scelta totale, esistenziale. Chi non ha ben chiari questi passaggi, vada a riscoprire la saga di Mario Puzo, Il Padrino, e quei regolamenti di conti concomitanti a dei momenti religiosi di alta intensità. Una scelta narrativa per nulla improvvisata, palesata già nello stesso titolo. Se il padrino, nei riti d’iniziazione cristiana, è colui che introduce alla fede; nella mafiosità, è invece colui che ti rinsalda nella carne. Due prospettive, effettivamente, in guerra aperta tra loro.
L’importanza della decisione del vescovo di Acireale va però accompagnata ad un altro evento di portata storica, la beatificazione di Don Pino Puglisi. Il decreto firmato da Papa Ratzinger ha certificato come il parroco di Brancaccio sia stato martirizzato in “odium fidei”. In passato si è sempre ragionato che quella particolare efferatezza contro i cristiani potesse provenire da parte dei pagani, islamici, atei o altro ancora. Ma l’idea che dei battezzati potessero eliminare un credente per dei motivi connessi al vissuto di fede era impensabile: un corto circuito concettuale non da poco. Benedetto XVI, da fine teologo, ha riconfigurato la questione, completando idealmente il grido “convertitevi” lanciato da Giovanni Paolo II ai mafiosi dalla Valle dei templi di Agrigento.
Il ragionamento è implacabile: il mafioso si deve convertire perché non è nella fede. In altri termini: è scomunicato! Utilizzando ancora il buono senso e un pizzico di ragionamento, è naturale dunque che se non sei nella fede, non hai diritto alla esequie cristiane. Il che non vuol dire affatto che per decreto Raspanti abbia negato il paradiso ai mafiosi o la misericordia divina, fattori che ovviamente non sono nelle sue disponibilità umane. Il vescovo acese ha invece certificato esplicitamente il valore pregnante di una scelta di vita: se il mafioso, infatti, ha optato con convinzione, in alcuni casi uccidendo, per il pieno beneficio dei bene terreni, senza il pentimento del cuore, non può chiedere la resurrezione del corpo. Il motivo è semplice: non la vuole.
La Chiesa dunque ha parlato. Ed in modo chiaro, pure. La sfida è ora sapere tenere testa a questi pronunciamenti. Ora sì, senza badare alle ipocrisie del caso, ci vuole fortezza. Ed anche l’ausilio delle istituzioni. Sempre che non retrocedano pure loro. Non sarebbe la prima volta. Lo stesso territorio acese fu scosso nel 1993 da una faccende ambigua. Allora, Pippo Nicotra, (link da correlare http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/09/17/pippo-nicotra-lalleato-di-crocetta-che-aveva-legami-con-clan-santapaola/355113/ ) il sindaco di Aci Sant’Antonio, oggi deputato all’Ars tra le fila del centrosinistra, fu rimosso dal prefetto e il comune sciolto per mafia, per essersi opposto alla decisione del questore Giuseppe Scavo di non concedere la pubbliche esequie ad un uomo d’onore del clan Santapaola. Allora fu però un giovane capitano dei Carabinieri, Giuseppe Arcidiacono, a tenere fede al proprio mandato e a far rispettare le decisioni prese dal Questore. Restando in tema di sacro, dunque, bisogna chiedere “una grossa grazia al Signore”. Quella cioè d’inviare quante più persone temprate e limpide possibile ai vertici delle chiese e delle istituzioni. Un processo di rinnovamento è già in atto. Facile è però retrocedere.