“Come gli uomini rinunciarono, da un quarto di secolo, a comprendere l’insieme fisico in cui vivono, li si vede, oggi, rinunciare a capire l’insieme politici dove si sviluppano le loro vite. Enorme, informe, incessante, la cronaca del pianeta Terra gli viene recapitata a casa, a tavola, a letto. La lettura è sostituita, per lui, da un’ingozzatura di suoni che inghiotte anche il tragico. Egli ascolta, perché l’udire è diventato un’abitudine; egli riceve i suoni, con un sentimento complesso di sottomissione e diffidenza, l’una e l’altra istintive, meno umane che animalesche. Quanto a comprendere i fatti, a ragionare e a trarre delle conclusioni a partire da essi, non bisogna proprio pensaci”. Parole scritte nel 1948 ma che ben si attagliano all’oggi, quando il frastuono delle notizie, la loro inverificabilità, la loro frenesia inaugurano il campo al possibile della “post-truth era” e delle fake news. Esse concludono un saggio di Daniel Halévy, il cui titolo anche sembra appena uscito da un torchio di stampatore. Si tratta di L’accelerazione della storia, da poco pubblicato da Oaks, con la curatela di Francesco Ingravalle e Tiziana C. Carena (pp. 172, euro 15)
Figlio del commediografo e librettista Ludovic e fratello del filosofo Élie, Daniel Halévy (1872-1962) appartiene al cuore dell’alta borghesia parigina e a una famiglia fin nel profondo animata da spirito orléanista. Negli anni del liceo, diventa amico di Marcel Proust ma la grande amicizia della sua giovinezza fu quella del pittore Degas, a cui dedica la sua ultima opera, uscita postuma, Degas parla (Adelphi, pp. 246, euro 20). Nei primi tempi i suoi maestri sono Huysmans, Baudelaire, Verlaine e Mallarmé ma intorno al 1890 scopre il socialismo à la Proudhon che “non avrebbe avuto tanta importanza nella mia vita – ricorda Halévy ormai quasi cieco – se Degas pittore non me ne avesse trasmesso, quando ancora ero bambino, l’etica severa”. Attratto dalle lotte contadine della Seine-et-Oise, questo grande lettore di Proudhon si appassiona al mondo delle università popolari. Il desiderio di conoscere altri mondi rispetto ai salotti parigini lo porta ad frequentare l’ambiente contadino da cui nasceranno le Visites aux Paysans du Centre (1921) dove, anticipando l’ambientalismo contemporaneo, denuncia la scomparsa della civiltà rurale.
Dopo aver abbracciato la causa del capitano Dreyfus, tra il 1898 e il 1914, partecipa all’avventura dei “Cahiers de la Quinzaine” al fianco di Charles Péguy e contribuisce alla fondazione di “L’Humanité” di Jean Jaurès per poi tuffarsi in un’opera intitolata Apologie pour notre passé (1910), primo passo verso tradizionalismo. Arriva poi, tra il 1921 e il 1927, la notorietà con la direzione dei “Cahiers vertes” affidatigli da Bernard Grasset dove ospita François Mauriac, Jean Giraudoux, André Maurois. Ma anche Paul Morand, André Malraux e Henri de Montherlant. Nostalgico di una civiltà rurale, alla ricerca di un’età d’oro, ossessionato dall’idea di decadenza in un’Europa senza radici e cosmopolita che, ai suoi occhi, si stava raggrinzendo, Daniel Halévy, al di là dei meandri della sua traiettoria intellettuale, rimane fedele al pensiero di Sorel, Proudhon, Péguy e Nietzsche, a cui dedica l’omonima biografia (Oaks, pp. 562, euro 20). Le sue posizioni tradizionaliste lo lasceranno ai margini della vita culturale, così come il suo salotto letterario dopo il 1945, in un mondo che sempre più disprezza l’arte della conversazione. Il viaggio intellettuale compiuto da Daniel Halévy dal liberalismo conservatore al tradizionalismo illustra una forma di resistenza al tempo della storia conservando sempre, come gli ha insegnato, la tradizione che ha sempre difeso dinanzi all’incedere del tempo. Lo testimonia bene proprio L’accelerazione della storia.
Ne parla anche Indro Montanelli in una Stanza del Corriere della sera quando racconta di una visita fatta a casa di Halévy. Proprio lì lo storico d’Oltralpe racconta all’ancora giovane giornalista italiano che l’accelerazione della storia di cui parla nel libro è un mutamento dell’andamento del tempo. Come nella vita di ognuno, riporta Montanelli, mentre i verdi tempi della gioventù paiono procedere lenti, con pochi cambiamenti, mano a mano che gli anni avanzano così si ha l’impressione che tutto incalzi più rapidamente. E così nella storia. Infatti l’accelerazione della storia non è la conseguenza del progresso tecnologico-scientifico ma una componente della storia stessa.
A questa conclusione Halévy giunge dopo una cavalcata lungo tutto il corso storico, dalle “lentezze estreme della preistoria”, all’irruzione dello stato assiro che imprime una iniziale accelerazione, fino alla concitazione dei tempi che seguono Hiroshima, quando gli uomini scoprono che “che la sostanza del nostro globo potrebbe, un giorno, interamente essere volatilizzata, soffiata via come una bolla, nello spazio”.
Eppure è imprevedibile se è vero che “è un intrico di invenzioni, di intuizioni, di iniziative eroiche che proliferano, si innalzano, ricadono. Essa èa una sequela di parossismi e di sfinimenti, è una crisi permanente”.
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