Riportiamo qui la relazione di Giuseppe Niccolai, sul tema «Berto Ricci: come fummo giovani allora», nel convegno del 25 Marzo 1984, nell’auditorium del Palazzo dei Congressi in Firenze (ll testo rinviene da una audiocassetta conservata da Umberto Croppi)
Berto Ricci è fiorentino, poeta, polemista, matematico, cade a Bir Gandula, Cirenaica, il 2 Febbraio 1941. Aveva 35 anni. In che cosa credeva? Nelle strutture politico-brurocratico-amministrative di cui è fatto uno Stato? Nel Palazzo, si direbbe oggi? Berto Ricci credeva nell’Italia, e per dirla con le parole di Dino Garrone, e che Berto Ricci mise nella sua prefazione alle lettere di Garrone stesso, scomparso anche lui giovanissimo all’età di ventisette anni, l’Italia la vedeva e la sognava così: «l’Italia dura, taciturna, sdegnosa, che portava la sua anima in salvo soffrendo delle contraffazioni, dei manifesti, dei ciarlatani, dei buffoni, dei letterati, dei commendatori. L’Italia che ci fa spesso bestemmiare perché la vorremmo più rigida, più attenta, più macra: vicino alla perfezione dei santi».
Dell’amico adorato, scrittore e poeta come lui, Berto Ricci tracciò questi lineamenti:
«Non cercò carriera, non ebbe fini effimeri, non comuni ambizioni. Ebbe vita interiore potente, soverchiante la esteriore pur così varia, popolata di fatti e di figure e accesa di passioni. Soffrì d’ogni menomazione inferta dalla debolezza propria o altrui (…) una coscienza senza sogno (…) un volere il sole, in sé e negli uomini il sole (…) un gioire e un soffrire coi paesi e con le acque, con la gente e i libri, con tutto quello che noi siamo (…) Il rispetto per l’uomo, la sua umiltà dinanzi al fratello ignoto e qualunque,così bella se guardata sullo sfondo della formidabile capacità di disprezzo che era in lui, dicono com’egli fosse alto e solo. Risultava da tutto questo, dall’amore, dal disdegno, dall’ingegno, dalla dominante e assillante pretesa d’assoluto, una magnetica giovinezza, di quelle che fanno esclamare: bella questa moneta nuova, e quanto val più dell’altre usate e tosate. E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».
Così Berto Ricci di Dino Garrone.
Potremmo scrivere: «così Berto Ricci di Berto Ricci».
La prefazione alle lettere di Dino Garrone è del ’38, ma Berto Ricci resta una colata di vita:
«E giovane è rimasto in morte, sull’invecchiare veloce di molti vivi».
Lo potremmo scrivere sulla tomba di Berto. E nessuno meglio di lui, a cui è toccata la sorte di vivere questa scettica e cinica Italia, sa e conosce la verità di quella frase: «e giovane è rimasto in morte sull’invecchiare veloce di molti vivi».
Berto Ricci fu un’intelligenza viva, libera, sanguigna, spregiudicata, strafottente e spavalda. Il suo foglio “l’Universale” è destinato a restare. Berto Ricci fu carattere, che altro non è che il coraggio civile. Berto Ricci, nel tempo di Mussolini e della sua dittatura, fu faziosamente, come può esserlo un fiorentino, controcorrente, contro, su ogni cosa, il moderatismo, i tecnici del saper vivere e del saper fare. Per dirla con termini della grigia politica di oggi, fu l’antidoroteo, fu l’antimoroteo per eccellenza.
In una sua poesia, “Inno a Roma” del ’33, è detto: «Oh i buoni servi non sono degni di Roma, non gli immoti e i pigri, ma i liberi, gli inquieti, quelli che simili a praterie che inarca il vento delle folli ambizioni».
«Pederasti e ladri», scriverà nel ’31 su “Lo scrittore italiano”, «possono esser grandi d’arte, e furono i piccoli cercatori d’applausi, cacciatori di recensioni e di premi, romanzieri stipendiati dal pubblico, no in nessun modo. E se parrà enorme a qualcuno questa mia affermazione, da non poterla digerire, e’ se la sputi. Già ho notato la preminenza dello spirituale sul morale, della divinità sulla onestà: e con questo non vo’ dire che pederasti e ladri sono divini; ma più vicini a Dio, forse, dei frigidi astuti savi e delle canaglie moderate».
Più vicini a Dio dei frigidi savi e delle canaglie moderate…
Giugno 1931. Fascismo e Azione Cattolica si fronteggiano. Sono passati due anni dal Concordato. Motivo del contrasto: l’educazione dei giovani. Berto Ricci su “l’Universale” titola: “Il duello col Papa” e trancia questi giudizi:
«Diciamolo francamente: noi non ci spaventeremmo di un clero macchiato di lussuria, di simonia, di ferocia, quanto ci preoccupa questo esercito d’impiegati in tonaca, irrimediabilmente malati di mal borghese. È nel peccato una grandezza, un principio forse di santità: nell’inerzia dei borghesi e dei mediocri non c’è che buio».
«(…) Venga presto, per il bene della cristianità, un papa gagliardo, rivoluzionario, che sprotestantizzi la Chiesa, spenga la politica e ravvivi…
[incomprensibile, coperto dagli applausi]
…, lasci alle donnacole le polemichette puntigliose, riporti nel mondo l’alito del Vangelo, riceva sì i pellegrini d’America, ma si mescoli anche alla plebe di Trastevere ed entri il vicario di Cristo nelle case di San Frediano».
C’è qualcuno nell’Italia democratica e repubblicana, uscita dalla Resistenza, che mi sappia indicare, da qualche parte, un polemista di questa vaglia, polemista, fatene caso, che così si esprimeva negli anni del diavolo del cavalier Benito Mussolini?
«Questo ci preme, questo vogliamo dire: questo nessuno può smentire, che gli eunuchi, i vili i pigliaschiaffi disonorano il fascismo, che i saggi in cappa magna lo inceppano, i noiosi teorici della tradizione gli fanno perdere tempo, gli adulatori lo avvelenano, i bruti spiritati dal gesto dittatorio e dagli occhi grifagni lo mettono in farsa, e l’Italia del popolo, l’Italia di Basso Porto e di via Toscanella, essa sola lo alimenta di vita, e questo non è classismo, non è bolscevismo, perché non importa essere nati in via Toscanella né starci. Quel che conta è saperci stare».
È il 12 Aprile 1931: la Spagna è repubblicana. Re Alfonso XIII, l’ultimo dei Borboni, lascia Madrid e prende la via dell’esilio. Su “l’Universale” del Maggio ’31, Berto Ricci scrive:
«Sommo errore politico, oltre che pessima romanticheria di maniaci del principio monarchico universale, sarebbe fare il broncio alla nuova Spagna repubblicana. Né i dogmi democratici dei successori di re Alfonso possono interessarci gran che: c’interessa la loro politica estera e la posizione del loro paese nel Mare Mediterraneo. Venendo poi a considerare in sé questo sbrigativo, ma atteso, invocato e guadagnato mutamento di regime, non si può dire che la monarchia sia stata molto benemerita di quella nazione. Che fruttarono alla Spagna i suoi secoli di obbedienza e di fedeltà al trono? Una lunga, atona agonia, una dittatura senza genio, un parlamentarismo senza sale, una lenta rovina di commerci e d’imprese. Ogni scossa è santa se giova a scuotere dal sonno e dall’ozio i popoli forti. D’altra parte i ribelli spagnoli hanno mostrato negli ultimi tempi di saper guardare in faccia con abbastanza tranquillità i plotoni d’esecuzione: e un’idea capace di preparare gli uomini alla morte merita vittoria, merita rispetto nell’Italia del comandante Umberto Maddalena». (maggio 1931)
Fateci caso, amici fiorentini, non sono considerazioni di poco conto. Sulla Spagna repubblicana o no, sui cui casi successivi l’Italia fascista, specie nei settori giovanili, doveva sentirsi lacerata, Berto Ricci è chiaro e direi aperto: questi ribelli sanno morire, meritano rispetto. E poi quali vantaggi hanno portato alla Spagna i secoli di obbedienza al trono? «Una lunga, afona, agonia, una lenta rovina».
Alcune idee di Berto Ricci irrinunciabili, le espose in una lettera del 3 Aprile ’38, quando decidendo di riprendere la pubblicazione de “l’Universale”, che aveva cessato di vivere allo scoppio della guerra di Abissinia, chiamava alla nuova collaborazione i suoi antichi, giovanissimi amici. È un documento rarissimo, di cui ringraziamo la famiglia di Berto di averci dato la possibilità di prenderne visione. Sono dodici pagine cariche di religiosità. State ad ascoltare. Sono direttive rivolte ad un gruppo umano che farà un giornale.
«È necessario -scrive Berto- che ognuno di noi sappia essere severissimo con se stesso. È una regola di vita e metodo d’azione che noi ci imponiamo e che va dalla purezza del nostro vivere pubblico alla semplicità dello stile, dalla dedizione intera all’Italia alla infrangibile unità fra noi. È il nostro fascismo e, anzi, più brevemente, il fascismo. E dobbiamo riflettere che è molto facile consentire su questi propositi, ma che il realizzarli sarà non sempre facile e potrà costar sacrificio. Sacrificio che può essere oggi una recensione mancata o il vedere un proprio articolo rifiutato. Sacrificio che può essere domani quello di partire per un fronte qualsiasi e di morirci come c’è morto Carlo Roddolo. Disciplina vera e bella, cioè non rinunziare mai alle idee, ma saper sempre rinunziare al tornaconto personale».
Signori della democrazia italiana: così i giovani trentenni nell’Italia di Mussolini fondavano i loro giornali, ne stabilivano le norme di vita e di comportamento. E ci vogliono dire, o ci volete dire se, per caso, nel giornalismo ultrademocratico del dopoguerra c’è qualche esempio del genere? Io l’ho chiesto personalmente a Romano Bilenchi, che ha vissuto da scrittore e polemista di punta l’esperienza de “l’Universale”, poi quella di questo dopoguerra come comunista.
«No -mi ha risposto- di quella passione non resta più nulla, se non un’angoscia panica di vivere oggi senza significato».
«Cosa dire? -si chiedeva Berto Ricci, scrivendo ai suoi amici- Ripensiamo, diceva, l’esperienza de “l’Universale” dal ’30 al ’34. Dal ’34 la Rivoluzione Fascista è inchiodata. Per una rivoluzione essere fermi significa arretrare. Si chiude il primo periodo dell’affermazione liberale, si apre il secondo tempo sociale del fascismo. Bisogna ricreare l’antitesti fascismo-capitalismo. Il nostro più immediato e più grave compito sta qui: le energie dirette altrove sono da considerarsi come disperse. Un socialismo di Stato, anche attuato completamente, e cioè una politica di assistenza spinta all’estremo limite, sarebbe semplice demagogia e trionfo di quel materialismo che molto fieramente si combatte a parole. Finchè non si organizza su nuove basi la produzione, e non la sola ripartizione, si resta nel sistema borghese, nella civiltà borghese, nel fascismo borghese. Si fa tanto per il popolo. A me non interessa neppure di sapere se questo è vero, perché una rivoluzione non può contentarsi di fare tanto per il popolo. Deve fare il popolo. Non basta dire quello che il fascismo non è. Bisogna dire quello che è. Per me il [incomprensibile] ideologico è cessato. La confusione ideologica rimane. Rimane un indirizzo sempre più accentuatamente destrorso e conservatore. Equivoci dottrinali innumerevoli, alcune farfalle, alcune povere farfalle e degni mandolinisti in camicia nera, si sono dati alla propaganda razzista. Anche qui, però, non basta insorgere contro la sempreverde livrea italiana, oggi al servizio di Berlino come ieri di Parigi, se non si indicano i veri e più profondi mali e i rimedi. Il razzismo deve il suo potere di attrazione perchè ha saputo essere a suo modo e con perfetta barbarie estremismo. Il fascismo, nonostante l’occasione impagabile delle sanzioni, è rimasto all’ideale della moderazione. Incoltura, machiavellismo volgare e un tritume storicistico non digerito hanno cooperato la tara al pensiero fascista l’orrore delle posizioni estreme. Barbari non si può più essere. Civili non si sa essere per bene. Noi siamo civilini. E la colpa è degli intellettuali fascisti. Quando Mussolini dice una parola giusta, diretta, audace, si precipitano in centomila a denicotizzarla, a tradurgliela in termini di compromesso e di burocrazia. Si tratta, invece, di andare più in là di lui, avendo noi le mani più libere. Si tratta di dirle anche per conto nostro codeste parole, senza aspettare il «via». “l’Universale” dette a Mussolini il senso che questa iniziativa c’era, e bisogna ridarglielo. Chi dice: c’è Lui, dunque seguiamolo; e chi dice: c’è Lui, dunque non possiamo far nulla, si inganna egualmente, tradisce la nostra missione. Le conseguenze sono che la gioventù straniera non vede in noi che i piccoli seguaci di un grande condottiero, i soldati di Napoleone che finiranno con Napoleone e quella Italiana sbadiglia, colleziona le cartoline precetto delle adunate, qualche volta fonda le cellule comuniste. Il pericolo comunista c’è anche in Italia ed è creato in gran parte dalla stupidità della polemica anticomunista fatta dai fascisti, perché l’estremismo è l’eterno bisogno organico della gioventù degna di tal nome, e quando non lo si trova in casa lo si cerca fuori. Avete sentito parlare di cellule comuniste nel periodo della guerra d’Africa? Io no. E questo non soltanto per un fenomeno di sana unione, ma proprio perché in quel tempo la posizione rivoluzionaria dell’Italia nel mondo fu aperta e apertamente proclamata. Fu estremismo».
E sul tema della libertà: «compito del futuro immediato -vedeva Berto- l’educazione della libertà, far vedere quanto il postulare una educazione, e quindi volontà e responsabilità si distanzi da un’affermazione di libertà vecchio stile, statica e sterile. Ma per Dio!, fare anche vedere che non si può proseguire all’infinito sulla via del saluto romano, del rompete le righe e zitti! Che il fascismo si decida: o con Dio o con il diavolo! O sistema invariabile delle nomine dall’alto o partecipazione del popolo allo Stato, e non semplice atto di presenza alle adunate e versamento dei contributi sindacali. Affogare nel ridicolo, chi vede nella discussione il diavolo, chi non capisce la funzione dell’eresia, chi confonde unità e difformità. Far capire che se non si fa questo, hanno ragione i fondatori di cellule comuniste, e finiranno per averla davvero. Finirla con l’asfissiante frasario a base di “ordine e basta”. Libertà da conquistare, da guadagnare, da sudare. Libertà non indistinta ma funzionale e non al servizio dei porci comodi dell’individuo. La libertà che è anche mistica, che anzi non può sboccare che nella mistica, ma libertà come valore eterno, incancellabile, fondamentale. Mostrare come la civiltà e la moralità fascista non possa coesistere nei soli ingredienti “fede e polizia”. E anche la libertà di manifestare opinioni e di fare un giornale che dica queste cose è secondaria dinanzi a quella che l’ultimo italiano deve esercitare, cioè il controllo dei pubblici poteri, di denunciare apertamente le ingiustizie, le prevaricazioni da chiunque commesse. Finirla col tabù delle benemerenze personali. Le benemerenze impegnano. In Italia gli attestati di benemerenza sono troppi e contano troppo, sono troppi e rendono troppo. E poi educare alla semplicità di vita le gerarchie, specialmente le loro donne».
E sulla politica estera: «si presenta -scrive Ricci- un fatto inquietante». E mi ha fatto piacere che l’ha detto Vittorio all’inizio dell’apertura di questo Convegno: «qua e là nel mondo -scrive Ricci- le destre si mettono in divisa fascista; arrembano il potere e danno quindi elegantemente lo sgambetto a chi ce le ha portate col proprio sangue. Camicie verdi o guardie di ferro. Le confusioni ideologiche ed i facili innamoramenti, per i quali un qualsiasi generale o colonnello che si mettano a parlare di governo forte e a mobilitare un po’ di ceti medi possano passare per banditori del verbo di Mussolini, ebbene -scrive Ricci- questi signori ci hanno fatto più male della grandine, all’estero e all’interno. Hanno autorizzato certe zone del popolo italiano, e non sempre le peggio disposte verso il fascismo, a vedere il fascismo soprattutto sotto l’aspetto della conservazione sociale».
L’allusione a Franco, qui, è scoperta, e questo valga per Ricci, ma per noi, o almeno per alcuni di noi, è attualissimo e Pinochet ci dice qualcosa a riguardo. Ma poi, è immaginabile, ai tempi che si vivono, una lettera di intenti per fondare un giornale, organata sulle motivazioni che Berto Ricci portava innanzi. Pensate: «si fonda un giornale per dibattere idee. La nostra totale dedizione è all’Italia. La nostra vita è all’Italia. Lo fondiamo perché chi sta in alto dia esempio di umiltà e di pulizia, perché le benemerenze impegnino e non contino. Perchè anche l’ultimo degli italiani abbia il diritto di denunciare chi ruba e chi commette ingiustizie».
Ma ditemi un po’, ma si fondano oggi giornali in Italia per sostenere simili istanze?
Oggi in Italia si fondano ad un unico scopo: farne strumento di lotta fra bande rivali che si contendono il potere, e non si va oltre. Nino Tripodi nel suo “Intellettuali sotto due bandiere”, ha risposto alla domanda. Non mi servirò di Berto antifascista, Berto comunista. Non mi servirò delle sue puntuali citazioni. Per la parte in cui è schierato, la testimonianza di Tripodi potrebbe apparire tendenziosa. Berto comunista, Berto antifascista? Io prendo invece a difesa Alberto Asor Rosa, già deputato comunista, operaista, come lui si qualifica, professore universitario a Roma. Nel IV volume della “Storia d’Italia” stampato da Einaudi scrive: «non si creda che le idee sostenute da questi giovani scrittori fiorentini, Berto Ricci è un personaggio assai più importante di quanto non dica la sua fama, siano il frutto di una individualistica ricerca di verità, tendente ad ogni modo a spezzare la corteccia del fascismo con posizioni apertamente e genuinamente eterodosse. Dietro a questi atteggiamenti di questi giovani c’è un corpus di dottrina fascista cui essi in gran parte si ispirano e non si può pensare altrimenti, dopo aver letto il brano -e lo riporta- in cui Giovanni Gentile afferma con molto chiarezza la natura popolare dello stato fascista. Sì, questi giovani, sul piano politico esprimono una posizione di estrema sinistra. Si badi, però, che estrema sinistra -è il comunista Asor Rosa che parla- significa, in questa sede, richiesta di una applicazione totale dei princìpi della rivoluzione fascista ed esaltazione del periodo eroico delle bastonature dello squadrismo. Nel progressismo social-fascista di questi giovani, c’è del nuovo …
[breve interruzione del nastro]
… c’è, rispetto ai precedenti modelli democratici, un più accentuato senso della dimensione sociale dovuto -è Asor Rosa che parla- a quel tipo di ideologia sociale antiproprietaria e collettivistica che nei teorici del corporativismo fascista trova la sua prima sistemazione politica».
Natura popolare del fascismo: se fosse stato altrimenti, cari amici fiorentini, come avrebbero potuto, scrittori come Curzio Malaparte e Vasco Pratolini, scrivere queste pagine sulla Firenze di Berto Ricci?
«Ma anche quei “franchi tiratori” -questo è Vasco Pratolini che scrive, su “il Politecnico” del Dicembre ’47- che si difesero di tetto in tetto erano fiorentini. La Repubblica Sociale Italiana salvò la faccia a Firenze. Una faccia che spuntava coi mitra dai comignoli e dagli abbaini. Soltanto a Firenze ci fu fra patrioti e fascisti vera guerra civile. Fu lì e solo lì vera Spagna. Rossi e neri dietro le barricate, al riparo di una cantonata, la linea del fuoco sugli argini di un torrente, nelle stesse ore dell’Agosto ’44, in cui anche Parigi lottava per la sua liberazione. I partigiani scesero dalle montagne e i fascisti li aspettarono. Non era più nazi-fascismo e Nazioni Unite. Erano fiorentini di due opposte fazioni che si ritrovavano ad uno dei tanti appuntamenti della loro storia. I tedeschi, fatti saltare i ponti, piegavano in ritirata, lasciavano le bande nere a vender cara la pelle. Gli alleati avevano segnato il passo davanti alle rovine dei ponti, affidavano ai volontari della libertà l’onore di cavare le castagne dal fuoco, espugnando la città. Durò otto giorni. E sulla stessa pietra, che ricorda il rogo di fra Savonarola, venne fucilato Pietro Chesi, trionfatore con distacco di una Milano-San Remo, che fa testo negli annali del ciclismo italiano. Dietro l’abside di Santa Croce, ove riposano Machiavelli, Galileo e Foscolo, fu passato per le armi Alfredo Magnolfi, challenger al campionato europeo dei pesi gallo. I partigiani dissero: “Alfredino era una canaglia, ma è morto bene”. Morirono bene questi sportivi».
La descrizione che si farà è stupenda, nella prosa di Curzio Malaparte ne “La Pelle”, il capitolo “Il Processo”, che inizia (oh, se Berto avesse potuto vedere questi ragazzi!):
«I ragazzi seduti sui gradini di Santa Maria Novella. (…) I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino. C’era anche una ragazza, fra loro: giovanissima, nera d’occhi e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli di Masaccio negli affreschi del Carmine. A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo. Parlavano con l’accento popolano di San Frediano, di Santa Croce, di Palazzolo.
“E quei bighelloni che stanno a guardare? O non hanno mai visto ammazzare un cristiano?”
“E come si divertono, quei mammalucchi!”
“Li vorrei vedere al nostro posto icché farebbero, quei finocchiacci!”
“Scommetto che si butterebbero in ginocchio!”
“Li sentiresti strillar come maiali, poverini!”
I ragazzi ridevano, pallidissimi, fissando le mani dell’ufficiale partigiano.
“Guardalo bellino, con quel fazzoletto rosso al collo!”
“O chi gli è?”
“O chi gli ha da essere? Gli è Garibaldi!”
“Quel che mi dispiace” disse il ragazzo, in piedi sullo scalino, “gli è d’essere ammazzato da quei bucatoli!”
“’Un la far tanto lunga, moccicone!” gridò una dalla folla.
“Se l’ha furia, la venga lei al mio posto” ribattè il ragazzo ficcandosi le mani in tasca.
L’ufficiale partigiano alzò la testa, e disse: “Fa presto. Non mi far perder tempo. Tocca a te”.
“Se gli è per non farle perdere tempo” disse il ragazzo con voce di scherno “mi sbrigo subito”.
E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio dei cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.
“Bada di non sporcarti le scarpe!” gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere. (…)
Ma in quell’istante il ragazzo gridò “Viva Mussolini!” e cadde crivellato di colpi».
Il più illustre dei sopravvissuti che si trovò con Berto Ricci a collaborare al foglio “l’Universale”, Indro Montanelli, nel “Borghese” di Leo Longanesi, il 4 Febbraio ’55, trenta anni fa, così racconta: «quando andai a Firenze, insieme a Brocchi, a conoscere il direttore del periodico Berto Ricci, con il quale avevo scambiato alcune lettere, anche per me il fascismo cominciò a contare qualcosa».
Due esili volumetti, oggi credo introvabili, uno di poesie, l’altro di pezzi polemici, son tutta l’eredità lasciata da Berto, caduto volontario a Bir Gandula nel 1941. Sulle poesie non mi sento di pronunciarmi perchè non ne capisco nulla, ma sulla prosa polemica mi pare di poter dire che la letteratura giornalistica non ne ha mai avuta di così stringente, dura e qua e là spavalda. A quella grande epopea mancata, che fu il fascismo, “l’Universale” di Berto Ricci fornì un contributo la cui inutilità non toglie nulla al suo valore e quando un giorno si farà, al di fuori della polemica, la storia di quel regime e dei tentativi che nel suo interno furono fatti da alcuni giovani per impedirne la mummificazione, quel piccolo quindicinale apparirà più importante del “Popolo d’Italia” e di “Gerarchia”.
Fin qui Mussolini. Più importante perché? Perché su tutti, amici di Firenze, al di là delle idee, le più disparate, che ne “l’Universale” venivano dibattute, con una libertà senza pari e sulle quali quei giovani sotto i trent’anni si accapigliavano con impegno ed entusiasmo, una convinzione è per la preminenza che nasce, ferma e ripetuta fino all’ossessione, che la rivoluzione italiana sarebbe stata tale solo se riusciva a costruire un nuovo tipo di italiano. Qui sta la solitaria grandezza di Berto Ricci. Qui sta la sua eresia nei riguardi di un fascismo ufficiale che in questa opera di costruzione umana non fu pari alla predicazione.
Berto Ricci non mancò a quell’appello di fondo. Fu un maestro di carattere. Portò l’impegno di fare le cose sul serio sino alle estreme conseguenze.
Si è detto, dal punto di vista letterario ci lascia soltanto due o tre volumetti. Sì, perché Berto, più che fornire parole, badò a dare un esempio a chi gli stava vicino, fino alla morte, e ci riuscì, vista la straordinaria autorità che esercitò su quei giovani di allora e che vi si raccoglievano intorno e chi si chiamavano Indro Montanelli, Ottone Rosari, Romano Bilenchi, Dino Garrone, Camillo Pelizzi, Elio Vittorini, Vasco Pratolini.
Lui, anti-gentiliano, si spense gentilianamente.
«Un uomo è vero uomo -aveva scritto Giovanni Gentile nel “Sommario della pedagogia”- se è martire delle sue idee. Non solo le confessa e le professa, ma le attesta, le prova e le realizza».
Berto Ricci è l’insegnamento che ci ha lasciato e che proprio nel suo ricordo, nel suo rifiorire prepotentemente dopo tanti anni di oblio, ci fa dire che spesso quell’insegnamento, come operatori di politica, in questa Italia della fuga dalla storia, abbiamo spesso offeso. Ai gigioni degli immancabili destini del «credere, obbedire, combattere», del «meglio un giorno da leoni» ci fu Berto Ricci che i problemi, anziché in termini di retorica facile, se li pose in termini di coscienza. Un fenomeno umano e politico che non ha eguali assolutamente nel tempo…
[interruzione]
Fin dal 1821 una costante storica italiana si afferma: la vocazione del volontariato. Si corre laddove le idee in cui si crede si danno battaglia. Berto parte due volte volontario: come soldato semplice la prima volta, come ufficiale la seconda. Per le idee in cui crede rinnova la tradizione che fu di Garibaldi e per le idee in cui crede muore.
1945-1984: quella tradizione è del tutto spenta.
L’Italia antifascista, alla lotta delle idee in cui afferma di credere non dà volontari. Nemmeno uno. Nemmeno nello scontro più fortemente passionario, il Vietnam, tutto finisce in cortei, nella raccolta di firme, nei gesti di solidarietà turistico-simbolici come i gemellaggi. Finisce la fede, tramonta l’idea, non sventola più nessuna bandiera. È il periodo democristiano. È il periodo bianco della nostra storia: la fuga dalla storia.
Con il 1945, con piazzale Loreto, la vena letteraria in senso lato, dei nuovi scrittori si esaurisce. Deserto. Nel libro citato di Nino Tripodi, “Intellettuali sotto due bandiere”, è riportata una frase significativa del pittore comunista Renato Guttuso: «la cosa strana è che le cose migliori che abbiamo prodotto le abbiamo fatte sotto il fascismo, sotto Mussolini perché sia Vittorini con “Conversazioni in Sicilia”, sia Luchino Visconti con “Ossessione”, sia io con la “Crocifissione” abbiamo dato il meglio di noi sotto il fascismo».
Gli fanno eco i due registi Paolo e Vittorio Taviani, “La notte di San Lorenzo”: «rispetto ai nostri miserabili anni di piombo del terrorismo e della pazzia, quelli del diavolo di Mussolini erano anni di diamante».
Ma perché, italiani di Firenze? Perché nella decrepita società italiana del primo dopoguerra, Mussolini, aggregando e contrapponendo per forza di idee gli uomini vivi, rimette in moto il sangue, la vita della storia. Fascisti e antifascisti si dividono, si fronteggiano, si scontrano, ma creano. Non fuori della storia ma dentro la storia. La fine di Mussolini è la fine delle speranze, per tutti, comunque la si pensi. Proiettati fuori della storia, rassegnazione è la nostra bandiera.
Indro Montanelli, e ho finito.
Nell’articolo citato del 1955, scrive: «non ha alcuna importanza stabilire che idee dibattevamo ne “l’Universale” di Berto Ricci. Le idee non si dividono in buone o cattive, ma in quelle in cui si crede e quelle in cui non si crede. Noi, nelle nostre, ci credevamo».
Montanelli pone la domanda -ascoltate bene, è del ’55- «abbiamo più creduto in altro, dopo di allora? Quando decisi di voltare le spalle al fascismo -racconta Montanelli- e andai a parlarne con Berto Ricci, questi mi disse: “Pensaci bene. Per non arrossire di fronte a noi stessi e l’uno di fronte all’altro, se imbocchi questa strada, devi batterla fino in fondo, sino al confino o all’esilio. Questo solo ti chiedo: di poter continuare a stimarti come avversario, visto che devo cessare di stimarti come amico”. Lì per lì – scrive Montanelli-quando Berto mi disse che se imboccavo una nuova strada, era mio dovere batterla fino in fondo, mi pareva di essere ben deciso a farlo. Ma poi mi accorsi che, per battere fino in fondo una strada, bisogna sapere almeno qual è. Ed io non lo sapevo. Credevo di essere diventato antifascista, ma non era vero. Anticipavo solo di qualche anno quella melanconica cosa che è l’Italia di oggi, l’Italia smaliziata e utilitaria degli italiani che non ci credono più. È così che diventai scanzonato ed entrai nella compagnia dei grandi scettici, cioè di coloro a cui si deve il bel capolavoro di questa Italia. Mi ero illuso di aver trovato una bandiera: ora so benissimo che di bandiere non posso averne altre e l’unica che seguiterà a sventolare nella mia vita è quella che disertai, prima che cadesse. Fummo giovani soltanto allora, amici miei!».
Così trenta anni fa, Indro Montanelli, rendeva omaggio a Berto Ricci.
A Berto Ricci, uomo nuovo di Mussolini, in questa Italia vecchia, senza respiro storico e senza speranza, rendiamo omaggio, soffrendo per non essere stati pari al suo insegnamento di vita e al suo messaggio. Alla moglie Mafalda, al figlio Paolo qui con noi, il nostro abbraccio affettuoso…