Tra le polpette avvelenate lasciate in eredità da Renzi al governo attuale, oltre agli opachi, per non dire fangosi, rapporti con la magistratura, all’impunità per i banchieri amici e al controllo pressoché totale dei grandi mezzi di comunicazione, c’è anche la riforma della scuola, che, inspiegabilmente, è stata accettata e supinamente portata a compimento dall’attuale Ministro (“per mancanza di prove”, direbbe Dagospia).
Peccato che il “governo del cambiamento”, non abbia pensato di cambiare anche questa infausta legge, o almeno rimandarne l’applicazione, come è stato fatto per le prove Invalsi. Invece di cogliere al volo l’occasione per sbarazzarsi della cosiddetta “Buona scuola”, e invertire finalmente la china autodistruttiva sulla quale è da decenni avviata la pubblica istruzione italiana, al MIUR hanno deciso di sferrare il colpo di grazia. Non paghi di aver eliminato per legge la bocciatura alle scuole medie (in burocratese: “scuola secondaria di primo grado”), con il recente decreto attuativo della legge 61/2017 (nome in codice per la Buona Scuola) il divieto di bocciare viene sostanzialmente esteso al primo anno di scuola superiore.
Dopo aver così costretto i docenti del biennio a una mission davvero impossible, i funzionari di viale Trastevere, con ammirevole equanimità, hanno deciso di rendere la vita impraticabile anche a quelli dell’ultimo anno delle superiori (in burocratese: “scuola secondaria di secondo grado”) dove purtroppo è entrato in vigore il nuovo esame di stato (in italiano: la prova di maturità).
Evitiamo di commentare l’abolizione della Terza prova scritta, fonte di gioia per gli insegnanti che avranno uno scritto in meno da correggere e degli studenti che dal primo giorno del secondo quadrimestre potranno ignorare metà delle materie curricolari, e concentriamoci sulle novità dell’esame orale, che non prevede più l’avvio con una tesina a scelta, cui seguivano le interrogazioni nelle varie materie, ma è diviso in quattro parti, con le interrogazioni totalmente abolite.
Nella prima fase, lo studente ci intratterrà sulla sua esperienza relativa all’alternanza scuola-lavoro, altra nefasta eredità renziana. Mi limito a osservare che alcuni miei studenti liceali dovranno ragguagliarci sull’importanza di aver piegato biancheria in una nota catena specializzata nell’intimo. Poi, ascolteremo i candidati esprimersi su una materia non prevista, e quindi non studiata, quale “Cittadinanza e costituzione” e, prima di concludere commentando l’esito delle prove scritte, si esibiranno nel pezzo forte dell’ orale, il cosiddetto colloquio.
Ora, parlare del colloquio come di “esame” è davvero una parola grossa, dato che, etimologicamente, deriva da exigere , cioè pesare, i cui sinonimi sono “verifica”, “analisi” e “valutazione”, tutte cose esplicitamente proibite dagli ineffabili burocrati del M.I.U.R. So che sembra impossibile – lo sembrava anche a me e a tutti i miei colleghi impegnati a decrittare le norme fumose emanate dai suddetti funzionari- ma è proprio così: le Indicazioni operative relative al colloquio sottolineano, infatti, nella nota DPIT prot. 788 del 6 maggio 2019 che:
“Il colloquio di esame non vuole sostituirsi o, peggio, (sottolineatura mia) costituire una riproposizione (impoverita nei tempi e negli strumenti) delle verifiche disciplinari che ciascun consiglio di classe ha effettuato nell’ambito del percorso formativo (…) e ha, invece, la finalità di sviluppare una interlocuzione coerente con il profilo di uscita, non perdendo di vista, anzi valorizzando, i nuclei fondanti delle discipline, i cui contenuti rappresentano la base fondamentale per l’acquisizione di saperi e competenze”.
Traduzione: i commissari non possono interrogare, ma devono limitarsi ad ascoltare – o a “condurre il colloquio”- per una durata, definita ottimale, “di 50-60 minuti”. E veniamo al bello, ovvero al contenuto del colloquio: secondo l’art. 2, comma 1 (DM 37/2019) “la commissione propone al candidato di analizzare testi, documenti, esperienze, progetti e problemi per verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, nonché la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e metterle in relazione per argomentare in maniera critica e personale, utilizzando anche la lingua straniera”. Il tutto a partire dal sorteggio di una busta, preparata dalla commissione, contenente “un’immagine, un breve testo, un grafico” o qualsiasi altra cosa, purché assolutamente estranea ai programmi svolti a scuola. Ho personalmente dovuto buttare via tutte le citazioni da poesie svolte o libri letti durante l’anno che avevo preparato per i miei studenti, perché “noti ai candidati”.
Pregasi notare l’assurdità degna di Comma 22: lo studente si prepara durante l’anno su dei contenuti che non potrà esporre all’esame finale, sottoponendosi a delle interrogazioni che saranno proibite alla maturità…
A scanso di equivoci, il Ministero si premura di sottolineare che la busta NON deve contenere nemmeno “domande, serie di domande, argomenti, riferimenti a discipline” e che noi docenti dobbiamo ricordare SEMPRE che trattasi di “colloquio, non di una somma di interrogazioni”. Sorge spontanea la domanda: ma cosa è servito, dunque, preparare gli studenti per circa tredici anni a sostenere interrogazioni, se poi l’esame finale non prevede questa modalità?
E come faranno gli eventuali studenti universitari a sostenere un esame, se saranno stati abituati a colloquiare di argomenti mai studiati, partendo da “materiali” sconosciuti? Ai funzionari ministeriali l’ardua risposta.