La casa editrice Solfanelli ha da alcuni mesi ripubblicato un testo forse dimenticato ma di notevole importanza per il ruolo forse inconsapevole che svolse: il libro in questione è “Il Carlismo”. Si tratta di una esposizione organica della dottrina giuridico-politica del movimento politico tradizionalista ispanico. “Ispanico” e non semplicemente spagnolo, poiché le Spagne hanno pretesa di universalità e sono anzitutto un modo di essere, un modo di intendere la vita, un universo composito e sovranazionale ordinato attorno a due assi principali: la fede cattolica e la fedeltà ad un Re.
Pochi sanno che uno dei principali autori del libro, il filosofo del diritto e della politica Francisco Elias de Tejada (1917-1978), svolse una funzione importantissima nel far approdare un segmento del variegato mondo del MSI di inizi anni ʻ60, proveniente dall’esperienza di Ordine Nuovo e plasmatosi sino ad allora sulle letture di Evola e Guenon, al tradizionalismo cattolico sotto quella particolare visuale che ha rappresentato il tradizionalismo – come dicevo poc‘anzi – di matrice ispanica.
Julius Evola (1898-1974), nell’immediato dopoguerra, aveva avuto il merito di fornire le coordinate essenziali per una lotta che ridestasse i cuori e le menti di una intera generazione di reduci, di sconfitti e di nuove leve che “non avevano fatto in tempo a perdere la guerra”, come ripeteva Giano Accame.
Da quella maestosa, autorevole e grigia palazzina romana di Corso Vittorio Emanuele, il “il nostro Marcuse” – come lo definì Giorgio Almirante – insegnava a quei ragazzi “maledetti” da tutto e da tutti – il cui capofila era un giovanissimo Pino Rauti – che il riscatto che andava cercato era anzitutto di natura interiore ed esistenziale.
Il mondo lì fuori apparteneva al “divenire”, un labile ed opaco riflesso del sovra mondo, quello che contava veramente e che investiva il piano dell’ “essere”. Essere e divenire, la cui differenza viene introdotta sin dalla prima pagina del suo testo di riferimento: Rivolta contro il mondo moderno.
Il pensatore romano mette da parte stilemi arcaici e ritualità ormai vetuste per presentare a quei ragazzi assetati di assoluto e volontà di riscatto una visione del mondo che coincide in larghissima parte con la “teologia della storia” della scuola contro-rivoluzionaria (di cui pure a suo modo faceva parte, seppur da una prospettiva “di sinistra”, dichiaratamente estranea alla tradizione cattolica, assieme a Guenon ed a Maurras).
Ma dopo qualche anno i primi dissapori iniziarono a registrarsi; l’Assoluto metafisico indicato da Evola era oscuro e di non facile presa; inoltre la realizzazione spirituale dei singoli era impedita dalle catene iniziatiche interrotte; infine, la condotta esistenziale indicata dal maestro talvolta era contraddittoria e spesso condita da pruriti anticristiani esageratamente marcati che denotavano spesso una conflittualità latente frutto della formazione giovanile nietzchiana
Quell’Assoluto doveva toccarsi con mano, doveva passare attraverso quell’istinto carnale che spinse san Tommaso apostolo a sincerarsi, dal tocco delle piaghe, che il Cristo fosse effettivamente risorto. Quel compito di “imporre le mani” e di disvelare Cristo lo assolse un altro grande autore, spesso dimenticato, che è Attilio Mordini di Selva (1923-1966) con il suo libro Il Tempio del Cristianesimo, dedicato al beato Carlo d’Asburgo, ultimo Imperatore d’Austria, in cui propone una visione organica della storia secondo gli assi portanti della metafisica classica cristiana. L’Assoluto adesso ha un nome ed un corpo preciso incarnato nella Seconda Persona della Trinità: Gesù Cristo.
Attilio Mordini convoglierà un gruppo composito di giovani proveniente dagli scritti evoliani verso un approdo, seppur non ancora del tutto formalizzato e con qualche zona d’ombra, alla tradizione cattolica, come ricorda Pino Tosca nel suo Il cammino della tradizione (Il Cerchio). Tra i protagonisti di questa pagina di storia vi sono intellettuali come «Piero Vassallo, Giano Accame, Tommaso Romano, Silvio Vitale, Stefano Mangiante» (Il cammino della tradizione, Il Cerchio, p. 94) oltre ai già citati Pino Tosca e Fausto Gianfranceschi.
L’incontro con Francisco Elias de Tejada avverrà per merito di Silvio Vitale fondatore della storica rivista – tutt’ora in vita – L’Alfiere, “pubblicazione napoletana tradizionalista”, il cui primo numero risale al luglio 1960.
Silvio Vitale assieme alla sua rivista organizzò il primo congresso dei tradizionalisti italiani, svoltosi a Napoli nel maggio del 1962. Tra i relatori fece la sua comparsa proprio Elias de Tejada oltre ad Attilio Mordini, Giovanni Cantoni, Savatore Ruta ecc; e nel gennaio dello stesso anno L’Alfiere fa conoscere al pubblico l’opera monumentale, ripubblicata in cinque volumi da Controcorrente, Napoli spagnola scritta dallo stesso Elias de Tejada. Nel 1966 sarà la volta dell’opera più nota del pensatore ispanico: La monarchia tradizionale (edizioni dell’Albero, Torino).
La monarchia tradizionale introduce l’ambiente tradizionalista italiano all’interno di una prospettiva solida ed organica, plasmatasi dalla ricchezza del pensiero dei classici del Siglo de Oro e fortificatosi dal sangue di quattro guerre civili – tra cui la Cruzada del ʻ36 – spesi in nome della fedeltà alla tradizione cattolica e del Re legittimo.
Il Carlismo, scrive Paolo Caucci von Saucken nell’introduzione al testo omonimo, è «espressione ultima e attuale della missione spirituale dei popoli ispanici», che vedeva affratellati su di un unico fronte di lotta – aggiunge Elias de Tejada – «il posato commerciante catalano, il duro sardo, il sognatore napoletano, l’indifferente andaluso, il basco semplicemente valoroso e il gagliego o il portoghese di stirpe celtica».
È questa l’affascinante varietà geopolitica “spiritualmente sovrana”, frutto di una civilizzazione “altra”, alternativa all’Europa – che inizia con i secoli XV-XVI –, e che affonda le radici nella Cristianità medievale, la Cristianitas maior. Tale civilizzazione, definita adesso Cristianitas minor, sopravvive e si perpetua «nei regni ispanici, dentro e fuori della Penisola Iberica – da Manila a Dole, da Cagliari a Lima, da Napoli a Lisbona» trincerandosi idealmente e simbolicamente dietro la catena dei Pirenei, dai quali combatte irriducibilmente la battaglia per l’instaurazione della civiltà cristiana.
Battaglia che continua tutt’ora e che ha come insegne quattro parole, dietro cui si disvela la vera “rivolta contro il mondo moderno”: Dios, Patria, Fueros, Rey.
Pino Tosca farà notare diversi anni dopo, quanto importante fosse aver fatto scoprire loro l’affascinante realtà dei Fueros, «che assume il valore di un comandamento universale» (Il cammino della tradizione, p. 98). I fueros sono norme giuridiche caratterizzate dalla loro pre-esistenza consuetudinaria, che ogni regno ispanico possiede, poste a presidio delle libertà concrete dei popoli contro ogni indebita ingerenza del sovrano e contro ogni spinta disgregatrice individuale. Il riconoscimento delle libertà dei popoli garantisce la pacifica convivenza tra popoli diversi, all’interno della cornice della Patria comune, il cui custode è il sovrano che non è assoluto, ma limitato nel suo esercizio dal rispetto delle consuetudini dei regni e dal rispetto della legge naturale e divina di cui è il primo tra i sudditi (in proposito si consiglia vivamente il testo curato dal prof. Giovanni Turco, Europa, Tradizione, Libertà, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005).
L’incontro con Elias de Tejada rappresentò, dunque, una tappa fondamentale per il giovane tradizionalismo italiano. Cristo da persona si dispiegava in dottrina e il sangue dei requetés carlisti diveniva tutt’uno con quello degli insorgenti antigiacobini vandeani e dei lazzari napoletani, nella fedeltà a quel Cuore sofferente e circondato di spine, cui ancor oggi ogni erede al trono carlista pone sul proprio stemma araldico, ritto e immobile all’ombra dei Pirenei.
Sì, interessante culturalmente, ma del carlismo politico oggi mi pare non resti quasi nulla. Anche prima delle “sbandate” a sinistra….Non ha neppure più un “pretendente” visibile….Del resto è sempre stato sconfitto.
Leggo qui della presenza del cofondatore del pagano Movimento Tradizionale Romano (1989), Salvatore Ruta al 1° congresso dei tradizionalisti italiani, a Napoli, nel 1962. A che titolo era presente? O forse è un refuso?
Ricostruzione ben fatta di uno dei rivoli a mio modesto avviso più interessanti della cultura di Tradizione in Italia… Forse avrei più che altro posto l’accento sulla derivazione guenoniana più che evoliana in quanto questo filone di tradizionalismo cattolico fa più riferimento al francese che all’italiano, un filone monista più che dualista e della “mano destra” più che della “mano sinistra”, ovviamente sono dettagli , lo spirito era comunque quello di un cattolicesimo ghibellino e monarchico , con cui Evola stesso aveva molte linee di incontro anche se non sempre coerenti a mio modesto avviso , del resto lo stesso Guenon con la sua iniziazione massonica e poi islamica andava bene al di là delle concezioni del cattolicesimo integralista(in fondo lo stesso De Maistre era massone), sicuramente Mordini fu il massimo esponente di questo genere di tradizionalismo perfettamente coerente con la confessione cattolica, Mordini che cmq fu importante nella formazione di tanti intellettuali fra cui anche Franco Cardini che non viene citato nel pezzo… Sul carlismo in parte ha ragione Felice, però alcune sue componenti sono state riprese oggi in maniera attuale per esempio da Vincenzo Sofo di 1000patrie e della rivista “il talebano”.
Essere anti-qualcosa non faceva parte del mondo di Evola. I ‘pruriti anticristiani’ sono accompagnati da una disamina precisa su cosa possa essere preso in considerazione del Cattolicesimo, anche se c’è veramente poco.
Ciò che riguarda i Misteri di Mitra come aspetto esoterico ed elitario , la figura solare del Cristo re-sacerdote , il Graal…
Mise in guardia dai pericoli semiti di tale credo, che poi furono quelli che infestarono Roma Impero.
Sulla contraddittorietà della condotta esistenziale non viene approfondito di cosa si parli. Molte potrebbero spiegarsi con quell approccio ‘di sinistra’ che cita l’articolo stesso
Il Carlismo è stato ciò che ha ispirato il Franchismo, che di fatto non era una vera propria ideologia, ma un insieme di più ideologie politiche, in particolare conservatorismo e nazionalismo.
A me l’articolo piace, e ringrazio chi lo ha scritto. Voglio informarmi di più sul carlismo, ma da “sporco reazionario” dovrei apprezzare.
Concordo con Rosen.
Werner. Non concordo molto. Il Franchismo fu più debitore alla Falange di Primo de Rivera che al Carlismo, alleato contingente. E sempre sconfitto. Franco politicamente aveva naso. Sapeva che solo con conservazione e tradizione non sarebbe andato lontano. Occorreva fare (o almeno promettere)quel che peraltro suggerivano Italia e Germania: una politica sociale. E fu quello che disse al Conte di Barcellona quando gli propose la restaurazione della Monarchia, dopo la Guerra: non durerebbe…Certo la sconfitta dell’Asse lo buttò per sopravvivere nelle braccia americane ed accentuò i suoi caratteri conservatori. Nazionalismo poco, e per lo più proclamato.
@Guidobono
Hai ragione, sono delle precisazioni pertinenti e te ne ringrazio. Il Franchismo ereditò l’antiliberalismo e l’antimarxismo dal Falangismo (variante spagnola del Fascismo italiano), e alla fine della Guerra civile del 1936-39, lo mischiò con il Carlismo, con cui condivideva l’attaccamento alla tradizione cattolica. Ma Franco pur avendo instaurato una dittatura personale e militare, era comunque un monarchico, tant’è che prima di morire era stato lui stesso, se non erro, a designare Juan Carlos di Borbone come Re di Spagna.
Riguardo Evola volevo solo dire che i “pruriti anti-cristiani” in realtà furono molto affievoliti nell’ultima parte della sua vita, egli disse anche nel “Cammino del cinabro” che in realtà la sua opera “Imperialismo Pagano”(che ad onor del vero era un idea del Reghini con cui finirono per litigare) fu scritta per fattori contingenti, ovvero per influenzare il Fascismo verso una determinata direzione, semplicemente il Barone considerava il cristianesimo una “tradizione a metà” per via del fatto che la sua parte esoterica era andata perduta o comunque non fosse più accessibile, ma egli credeva che andasse comunque benissimo per “l’uomo comune”, quindi possiamo ribaltare in qualche modo la questione e dire che Evola fu un anticristiano solo a metà, anche perchè il suo giudizio sul cristianesimo ghibellino del medioevo, la Tradizione cavalleresca etc era estremamente positivo, poi certo egli si discosta dalle corrente classiche della contro-rivoluzione per la sua “equazione personale” che lo portava a considerare in modo particolare la “via della mano sinistra”, soprattutto quella del tantrismo estremo orientale e di certo buddhismo, sul paganesimo invece scrisse il noto articolo “L’equivoco del neo-paganesimo” mettendo in guardia sui pericoli ad esso inerenti e quindi distinguendo le forme spurie moderne dalla sacre tradizioni greco-romana, germanica, celtica etc
Il neopaganesimo non esiste. Se non come curiosità intellettuale…Chi sarebbero i nostri dei? Chi li conosceva? I nostri nonni? No, quasi due mila anni fa, forse, dipendeva in che città stavi.… Wikka? Thor? Aha, aha, aha! Salutoni…
Lui, Franco, era monarchico nell’animo, discendendo da coloro che credettero nei Re Cattolici, Fernando ed Isabella, in Carlo V e Filippo II – che vinse a Lepanto e fece costruire l’Escorial – ma non credette mai ai Borbone. Juan Carlos fu ciò che lasciò il mercato ed all’ultimo (1969)lo prese… Da buona fonte, da chi gli stette vicino fin quasi all’ultimo, so ch’era solito ripetere: ‘io muoio al potere, poi cambierà tutto, si deve cambiare…’. Non credo si facesse illusioni di sorta sul cambio, tanto meno negli spagnoli, regionalisti, litigiosi, campanilisti, individualisti (i demoni domestici)… era sempre stato diffidente…Ascoltai, come tanti, ma sul posto, il suo ultimo discorso nella Plaza de Oriente, 1 ottobre 1975. Si vedeva, si sentiva e si capiva ch’era ormai assai prossimo alla fine. Non volevo mancare ad un appuntamento con la storia…Quando uno invecchia ricorda… Saluti!
Guidobono,
secondo il tuo infelice ragionamento il neopaganesimo non esiste perché gli Dei dei “nonni” non si conoscono?
Spiace la pochezza del tuo ragionamento: non si conoscono gli Dei nella stessa misura in cui non si conosce alcuna religione, a partire dall’eresia giudea che diede vita al cristianesimo, di Yoshua Ben Pantera / Cristo. Evitiamo banalità, anche in questo breve scambio social, per cortesia. Salutoni
@Guidobono
Verissimo ciò che scrivi. I Borbone erano l’unica dinastia reale “disponibile” per la Spagna, quindi non poteva fare altrimenti, peccato che poi una volta reinsediati sul trono di Spagna, hanno permesso che tutto il buono che Franco aveva costruito in quasi 40 anni di governo, fu praticamente demolito in pochi anni. La Spagna post-franchista è una nazione alla deriva peggio della nostra, che in fatto di progressismo politico-culturale non ha nulla da invidiare alle nazioni-postribolo della Scandinavia e del Nord Europa. Il fatto che uno come Almodovar – regista di film-spazzatura fatti di femminismo, omosessismo e nichilismo sfrenato – venga considerato come uno dei principali esponenti della cultura spagnola odierna, la dice lunga. Buona giornata.
Paolo. Perchè il paganesimo aveva, ovviamente, solide radici nel pagus, il luogo. Quindi non discendeva da Rivelazioni, come le religioni abramitiche ecc. Ma da tradizioni locali e da origini leggendarie. Naturalmente il paganesimo – i vari paganesimi, anzi – aveva in sé una ‘carica evolutiva’ che non hanno le religion rivelate. Chi vuol essere pagano oggi, a quali radici può far riferimento? A nessuna, gli dèi han lasciato il mondo…Impossibile render loro un culto. Semmai solo all’arte, alla letteratura, magari all’idea che non era male quel pantheon pluralista…Interessante, ma insufficiente.
Guidobono.
E’ veramente difficile ragionare di paganesimo con chi non riesce a uscire dalla logica duale cristiana.
Provo solo a dirti due cose.
Pagus è il villaggio. E’ la radice del termine dispregiativo “pagano” col quale i cristiani del basso impero romano identificarono i gentili che nei villaggi, cioè nelle campagne, riuscivano defilati a continuare a coltivare i loro riti, mentre le città erano quasi completamente cristianizzate e già sventrate nei templi. Oggi diremmo “bifolco”.
Quanto al legame col luogo (ma non con qualunque luogo) è vero. Ma ciò che è eterno non muore: ti basta il Genio di Roma come radice, tanto per restare in zona?
Gli Dei dunque ci sono … ma per chi vuole vederli.
Vale Bene Optime
I pagani adoravano la natura (che in parte non conoscevano) attraverso gli dèi. Dire che ‘ciò che è eterno non muore’ è un atto di fede. Tradotto in volgare, per la generazione d’oggi, che cosa sognifica? Ma che è il ‘genio di Roma’? Vai a Tokio, a Pechino, a Singapore (o anche solo a Doha o molto più vicino ancora…) e nessuno lo sa, né gli importa. Il buddismo poteva convivere con il paganesimo. Il Cristianesimo o l’Islamismo o l’Ebraismo no. Il monoteismo (con annessa idea di dominio della natura) ha distrutto il paganesimo ed una volta morto lo è per sempre…Chiamiamo forse paganesimo il materialismo dominante? Ma che bisogno c’è? Cui prodest? O abbiamo materiale di ‘conversione’ (credibile) da offrire?
Genio di Roma? La gente a Roma vorrebbe trasporti efficienti, pulizia, sicurezza, non tante buche, non più immondizia debordante e cinghiali rovistando, meno strapotere di clan malavitosi ecc. ecc…. Per la poesia c’è tempo, per l’Impero ci pensino le generazioni future (!!!), adesso pensiamo alla prosa…
Il paganesimo di Roma delle origini e di qualsiasi civiltà Tradizionale, riguarda il culto delle forze metafisiche e trascendentali che si identificano con la pluritaà di Dei,
che erroneamente si cerca di personificare,
esattamente per ciò che riguarda il Dio-persona delle abramitiche. Non centra nulla con le versioni spiritistiche dei culti lunari e della Madre ,di wikka e neo paganesimi vari.
L impero è caduto quando ha perso quella visione attiva del Rito in cui si governano e richiamano determinate forze, passando alla visione passiva del chiedere, della preghiera.
Rosen. È interessante quanto scrivi, però io scorgo il rischio di questo approccio circa la “visione attiva del Rito”. Quello di abbandonare la concretezza della natura (quella sì pagana, come per i pellerossa ecc.), con i suoi limiti, per confidare nelle forze metafische o magiche evocate, divorziando dalla realtà… Insomma, alla fine ci risiamo: il rischio di finire come Himmler e le sue SS…male… Saluti!
Rosen. La ‘ritualità’ (non quella di ogni culto religioso o civile o militare) ti può servire per rafforzare la fede degli adepti o per camminare sui carboni ardenti e cose del genere. Ma non serve, oso affermare, per mantenere gli imperi nei secoli…
Bravissimo Rosen, è esattamente quello il punto, il naturalismo non ha mai avuto nessuna attinenza con le tradizioni pre-cristiane tranne che nella ingenua lettura dei moderni:” Anzitutto, ciò che caratterizzò il mondo non-cristiano in tutte le sue forme superiori, non fu una divinificazione superstiziosa della natura, bensì una comprensione simbolica di essa, per via della quale ogni fenomeno ed ogni azione apparì come la manifestazione sensibile di un mondo sovrasensibile: la concezione “pagana” dell’uomo e del mondo ebbe essenzialmente carattere simbolico-sacrale. In secondo luogo, il modo “pagano” di vita non fu per nulla una naturalistica licenza: nelle forme originarie e di alta tensione dell’antica Roma, dell’antica Ellade, delle antiche civiltà indogermaniche d’Oriente, ecc., non vi fu aspetto della vita, sia individuale che collettiva, che non fosse accompagnata, sorretta e animata da un rito corrispondente, cioè da una azione e da una intenzione spirituale concepite come oggettivamente efficaci.” Felice è proprio seguendo l’interpretazione che proponi che si fa la fine dei vari Rosenberg e compagnia che adottarono proprio quel “paganesimo” deteriore, materialista e regressivo che l’apologetica cristiana ebbe a denigrare, quel paganesimo inferiore di tipo biologico-naturalistico che in nessuna realtà tradizionale pre-cristiana è mai esistito, pellirossa compresi, eco perchè bisogna distinguere fre le originarie forme pre-abramitiche e la fuffa neo-pagana che non è altro che una rappresentazione di una “paganesimo” mai esistito se non nelle sue degenerazioni peggiori.
Felice è proprio il Rito che conserva l’Ordine, ed è proprio grazie ad esso che gli Imperi sono nati ed hanno prosperato,quando il Rito viene a mancare è esattamente il momento in cui l’Impero decade nel caos… Il Rito è Ordine e Forma, questo è chiaro per esempio nella forma sanscrita Rta in cui designa “l’Ordine cosmico”:” Così Ṛta acquisisce il pieno significato di “ordine cosmico” ovvero della Realtà che procede priva di contrapposizioni od ostacoli. Questo termine è legato, sempre per mezzo della radice indoeuropea di *ar, al termine greco harmos, da cui l’italiano “armonia”, e al latino ars da cui “arte”.
Ṛta è un termine assegnato ai deva che operano coerentemente con l’ordine cosmico, il quale va difeso e mantenuto. Coloro che non perseguono questo “ordine” sono anṛta (non ṛta) o anche asatya (non veri).
Questo termine è collegato all’avestico Aša che possiede, anche nello Zoroastrismo, il medesimo significato.
Ṛta si oppone al sanscrito vedico Druh (avestico druj) che rappresenta il suo opposto ovvero il disordine provocato dai “demòni” e dagli umani che si dedicano a distruggerlo o a corromperlo.
Nel Vedismo Ṛta è sempre stato considerato un principio impersonale e mai fu reso come una divinità “personale”. La divinità vedica che incarna il principio dello Ṛta è Asura Varuṇa (avestico Ahura Mazdā), suo tutore e vincitore del Caos, nonché protettore, severo e temuto, della “giustizia” e della “verità”.
Ṛta è particolarmente considerato nella pratica cultuale, ovvero nella corretta esecuzione di detta pratica che permette la permanenza stessa dell’ordine cosmico.
p.s. “Il sanscrito rta, assieme al latino ritus ed ordo e al greco armonia discende infatti dalla medesima radice *ar- dalla quale deriva anche in greco areté intesa come nobiltà interiore, eccellenza spirituale ed argòs (latino argentum), termini che rimandando al simbolismo del bianco e della luce, suggerisce lo stato di purità spirituale.
L’aderenza all’ordine universale, al rito cosmico compiuto incessantemente dalla divinità, fa sì che l’azione compiuta dall’uomo giunga a buon fine ed ottenga il risultato che si propone giacché l’azione avviene in conformità alla norma celeste di cui realizza in terra il potere ordinatore.
Parimenti, a Roma il concetto di jus e di justus esprime l’aderenza del rito, della norma giuridica e dell’azione al fas, alla parola pronunciata da Giove. Il concetto romano di “pax deorum” esprime lo stato di conformità alla norma celeste il quale garantisce l’armonia fra umano e divino. Come si vede, da una tale prospettiva metafisica l’elemento “magico” resta del tutto escluso.”
In tutto ciò però qualcuno potrebbe obbiettare, come ha fatto l’utente Paolo più sopra a mio modo di vedere errando, che una tradizione di tipo pre-cristiano sia quindi oggi possibile… Non è così per una questione squisitamente di ordine tradizionale da tener presente: prendendo il notsro caso, ovvero quello italiano, dopo la fine della religio romana le fonti frammentarie che a noi sono arrivate non sono in alcun modo sufficienti a legittimare l tentativo di ricostruire in modo corretto e dunque efficace le cerimonie ed i riti pre-cristiani, che siano essi romani, etruschi, siculi , umbri, liguri etc etc “Perché un rito sia efficace, oltre a dover essere eseguito in perfetta aderenza alla forma codificata e trasmessa dalla tradizione cui il rito appartiene, deve poter contare su una continuità non interrotta nel tempo garantita da una trasmissione diretta la quale in nessun caso può essere unicamente affidata a formule scritte… Una tradizione, per esser tale, deve garantire una trasmissione qualificata e ininterrotta nel tempo della sostanza spirituale dalla fonte a chi ne usufruisce e deve anche garantire l’ininterrotta attuazione delle operazioni liturgiche, rituali e sacrificali senza la quale, mancando la trasmissione, o tramandamento, cessando il tradere verrebbe a cesare la tradizione stessa. Ove tali requisiti manchino, non vi è tradizione pur quando sussista, nella persona, la tensione verso un archetipo tradizionale…” Questo è il problema di una certa “destra” cosiddetta tradizionalista, con un uso improprio di questo termine identificato solo nel suo aspetto culturale o politico mancando appunto una tradizione reale e vivente da difendere, facendo scadere questo genere di “tradizionalismo” in vie arbitrarie ed autonome oppure in un conservatorismo sterile se non in pure e semplici manifestazioni anti-tradizionali e di
parodie confezionate ad uso di una certa parte della “destra”.
Stefano. Grazie. Tu dici che è proprio il Rito che conserva l’Ordine, ed è proprio grazie ad esso che gli Imperi sono nati ed hanno prosperato. Poi però mi citi termini in sanscrito, avesta ecc. Ed allora io penso che l’India, come diceva un amico, viene da tre mila anni di malgoverno e corruzione…e prosaicamente divento scettico, così come per la Grecia, il cui unico impero, peraltro macedone, durò assai poco. Insomma, o cambiamo l’idea di Impero, ne facciamo una autorevole entità culturale, ma in termini politici esso non parmi affatto prodotto del Rito, quanto delle armi al servizio di una idea (“il Destino Manifesto” degli statunitensi, ad esempio). Saluti!