Quell’insieme di giornalismo, grande finanza, banche e la politica stessa – insomma, tutto ciò che fa il potere – non sa che l’Italia è fatta di paesi e di spazi ormai vuoti dove vi dilaga la morte.
“E i nostri governanti di oggi e di sempre”, dice Franco Arminio, “non l’hanno mai capito”.
Non produce emergenza, infatti, “la civiltà della geografia”. E c’è un profondità – ciò che si dilegua dall’intima cittadinanza degli italiani – che va a destinarsi all’estinzione. Ma “l’uomo metropolitano cosmopolita e ben connesso”, si domanda Giovanni Lindo Ferretti, “è proprio così ben messo?”.
Attenzione ché può cambiarvi la vita questo approssimarsi a due voci di questi due magnifici lupi remoti – Arminio, il paesologo di Bisaccia, e Ferretti lo scrivano di Cerreto Alpi – il loro pascolo di parole è infatti pastura aperta all’impensato: è il dialogo dagli Appennini.
E attenzione dunque perché il breve libro che è derivato dal loro incontro, L’Italia profonda (Gog edizioni, euro 9), può condurvi alla verità impensata di voi stessi: diventare migliori di certo, e tornare a vivere nella casa dove si è nati.
A due voci – come in una preghiera che s’innesta nel canto per farsi poesia – Arminio, l’uomo del festival La Luna e i Calanchi e Ferretti, l’ex rockstar de CCCP Fedeli alla linea si ritrovano stampati fianco a fianco.
Impaginati, entrambi – ma è carta che non s’incarta – nel loro ragionare che arriva diritto al senso del sé.
A due voci come due aedi compenetrati nella serenata all’Eterno, Arminio e Ferretti celebrano il sentimento del vero: “I bambini che possono guardare il porno e l’horror non possono guardare la nonna morta” ma è proprio quell’accarezzare il freddo della carne a scaldare la vita che procede, e cioè la propria vita, rigenerando la vita degli altri.
Un canovaccio – è il racconto di un’esistenza antica, l’Appennino – risolto al modo di una cantata dolcissima tra i pietrischi e le salite ripide dove non si può avere fretta.
Frutto di un appuntamento costruito apposta – “un conversare pubblico, un tardo pomeriggio dello scorso inverno a Palazzo dei Piceni in Roma” – il libricino, proprio un breviario di meditazione, è uno scavo tolstojano che nulla concede alla stucchevole retorica sentimentalista del Mulino Bianco.
Un manifesto politico piuttosto, questo è: insegna a tornare, a vivere dove si è nati, in paese.
Il paese non è una città mancata – così come il Sud non è un Nord mancato – ma il Genius Loci.
E il lì restare e permanervi infine affinché quelle pietre dove ognuno dice della propria solitudine – che è sempre la stessa degli altri – non sia più la terra disabitata, tutta di porte chiuse e spazi vuoti è il benedetto ritrovare le cose prime e quelle ultime: il rifugio di “veglie, doglie, famiglie, fuochi, pertinenze”.
Si legge, questo calepino, mordendosi le labbra, tanto commuove: il risuonare di ogni parola sale come un fiotto di sangue in petto. Fa venire in mente la parola Dio, questo libro: l’Inviolato che s’incontra più facilmente sui monti che in pianura. È intriso di sacro in ogni rigo, ed è una guida per viandanti: “La trama dello spazio è fatta di fregi e sfregi, dietro ogni curva può spuntare qualcosa che accende il cuore”.
Attenzione, allora, può capitarvi di comprare l’olio e il vino senza guardare il prezzo per dare onore a chi, vivendo nei paesi, fa una grande vita.
E attenzione, infine, ché questo libro è stato pubblicato da un editore che difficilmente, il prossimo anno, potrà superare il vaglio del codice etico al Salone del Libro di Torino.
da Il Fatto Quotidiano del 20 maggio 2019