Sontuosa, “Elena” di Euripide scritta con Davide Livermore. Sontuosa e avvolgente. Un trionfo in musica ieri sera al Teatro Greco di Siracusa ha aperto la 55ma stagione delle Rappresentazioni Classiche. Una certezza ha avuto il pubblico, che ha interrotto con sette stacchi di applausi lo spettacolo e ha tributato al termine la più naturale delle standing ovation, che per Siracusa e il suo teatro è cominciato un altro tempo. La sensazione dai gradoni del teatro è stata questa: di assistere a una dissolvenza incrociata di mondi e modi di fare teatro classico, di essere testimoni di una partitura a quattro mani. Due antichissime, quelle di Euripide che consegnano all’archetipo il buffo della devianza dal reale: Elena di Troia non è Elena di Sparta, ma “un fantasma d’aria…una statua che respira, fatta di cielo, a mia insaputa…un simulacro vuoto”. Due mani postmoderne, quelle di Davide Livermore che contaminano quell’archetipo di tutto il contaminabile che l’arte contemporanea può esprimere: musica, danza, parole, digitale. Ne viene fuori una tragedia che non è una tragedia. Un’opera buffa che restituisce al pensoso e moralista Euripide lo sprazzo di scherzo che dovette affacciarsi nella sua mente quando scrisse e mise in scena nel 412 a.C. quest’opera così straniante che coniuga una teodicea radicale seppur non lineare “Che cosa è dio / che cosa non dio, / che cosa c’è in mezzo?” e un’antroposofia a forma di nuvola, se Elena diventa il condensato dell’ironica quête della Bellezza, sia essa seduzione di cuori e di corpi sia essa spinta a eroiche gesta. Come accadde nella guerra di Troia in cui Menelao incappa alla ricerca della moglie rapita e incappano tutti i giovani achei stretti da un giuramento d’onore, desiderosi di bella morte, morti sotto le mura della fatale città, sopravvissuti ad altrettanti fatali nostoi.
Come Menelao (Sax Nicosia, capace di un crescendo recitativo straordinario tra sberleffo ed enfasi, riesce a modulare nel corpo e nella voce i registri dell’eroe fiero e del marito succube, del naufrago dignitoso e del re pragmatico) che finito per volere di Poseidone sulle spiagge egizie, vi trova l’impensabile: un’altra Elena, la sua Elena non fedifraga ma fedele sposa, scambiata dal padre Zeus con un eídōlon da imbarcare nella nave di Paride alla volta di Troia.
Elena resta in Egitto dal re Proteo che la protegge finchè vive, poi come una Penelope qualsiasi, resiste alle voglie del figlio di Proteo, Teoclimeno che vorrebbe sposarla mentre lei indugia e rifiuta.
Laura Marinoni è Elena. Davide Livermore non avrebbe potuto fare scelta più oculata. Marinoni occupa la scena nella verticale del suo prosperoso fisico, simbolo della bruna bellezza carnale (Elena nel mito ha colori diafani) della femme fatale e nell’orizzontale delle immagini, proiettate sullo sfondo, in cui la donna si racconta nelle sue diverse età. Un’interpretazione senza sbavature: perfettamente nel ruolo, Marinoni attraversa i registri vari del testo con eleganza e naturalezza. In un’opera del doppio come “Elena” di Euripide, Marinoni sa insinuare, nella disinvoltura con cui possiede la scena, il dubbio che il mito porta con sé: Elena è vittima degli dei o una grande fingitrice? Civetta nei duetti con Menelao (è Elena che s’inventa il modo di gabbare il figlio di Proteo e tornare nella sua Sparta da regina, ancora) e con Teoclimeno; li bacia in bocca in un tripudio di sensualità sfacciata da fiction televisiva.
Giancarlo Judica Cordiglia sa essere un Casanova di rimpiazzo, patetico come un cicisbeo, straordinario nel suo falsetto da voce bianca che libera la risata del pubblico quando esclama “Che coro greco!” – superbo intarsio metaletterario-, compassionevole come quel disgraziato Cristiano VII di Danimarca, burattinaio finito burattino di una storia più grande delle sue semplici voglie. Livermore per questo terzetto ha pensato al “Barbiere di Siviglia”, ma -diremmo- anche alla commedia borghese e alla farsa, a “Elena egizia” che Hugo von Hoffmannstal scrisse per Strauss “Dell’alta reggia i solidi battenti sonori si aprano all’eterna coppia!” o a quei “Proteo e Menelao” di Paul Claudel del 1950 che riparano Elena “dagli eccessi di questo ambiente igrometrico”. Umidità, non d’aria ma d’acqua. L’acqua nella regia di Livermore è il senso. Ed è a partire dalle ricorrenze dell’acqua che si celebra questo lavoro della coppia Euripide- Livermore. Scrive Euripide (la traduzione di Walter Lapini tradisce il testo raramente e lavora sul registro più che sullo stravolgimento del testo) “Somigliava a Elena come una goccia d’acqua”, “danza estenuante sulla distesa delle acque”. Se Livermore può dirsi coautore di “Elena” insieme a Euripide, lo deve all’invenzione magistrale di riempire la cavea del teatro greco d’acqua. Nella distesa d’acqua nasconde gli oggetti di scena, fa galleggiare in perfetta simmetria triangolare al centro la lastra di marmo che è la tomba di Proteo, a sinistra il brigantino con cui Menelao arriva e parte e che si trascina e fa ruotare (non poteva il regista di “Attila” rinunciare alle macchine sceniche come alla proiezione dei video realizzate dal video design D Work: attributi di Menelao le onde del mare, di Elena le onde delle nuvole), a destra l’arpa suonata dalla corifea Federica Quartana, bella nella voce, nelle mani, nella misura scenica. Sulla distesa d’acqua fa scorrere la poltrona su cui siede Elena, fa avanzare il primo e il secondo Messaggero (Maria Chiara Centorami e Linda Gennari) e Teucro (bravissima Viola Marietti) che fanno il gioco di specchi.
Lo specchio è l’oggetto scenico necessario per esaltare il gioco dell’acqua. L’acqua per Livermore è “elemento del principio e della fine”, pretesto della reinvenzione di Elena, spazio liquido dei frammenti della memoria. Gli specchi stabiliscono il passaggio ironico dal tema del doppio al ludus delle luci – straordinarie di Antonio Castro– risaltate dai costumi sfarzosi di Gianluca Falaschi tra rasi brillanti e paillettes e lurex (geniale vestire i Dioscuri Vladimir Randazzo e Marcello Gravina in abito da sera lurex bianco che esalta il transgenico in scena, come nelle gonne ottocentesche indossate dal coro maschile).
La scelta del regista che ha curato anche le scene tocca l’apice nelle musiche. Scritte da Andrea Chenna: le musiche sono l’antichissimo presente di questa “Elena”. E se la parola pare servire la scenografia, ancora di più essa si fa ancella della musica. La vera novità della regia di Livermore sta nel comprendere Euripide dentro il melodramma, di ricreare il teatro di pietra in un immenso auditorium dove tutta la musica è in festa, e con essa la danza. Mozart, Emerson Lake e Palmer, Ravel, la passacaglia e il fandango, il ballo lento e il valzer, l’arpa e la musica che viene dall’acqua con un ingegnoso sistema di sensori che fa scaturire il suono dal sommerso come la voce dalle antiche maschere scaturiva dai trombini nascosti. E poi il gran ballo che saluta il pubblico.
“Elena” piena di colori: giallo oro, rosso, nero, azzurro si alternano negli abiti e nelle proiezioni. “Elena” piena di simboli. Simbolo è la bellezza declinata in tutte le età, dalle immagini del volto della Marinoni modificato per rappresentarla transeunte il tempo. Simbolo sono le parole di un’attualità sconcertante “Qui da noi i porti sono chiusi” minaccia la vecchia (interpretata da Mariagrazia Solano, un po’ goldoniana, un po’ strega delle fiabe, un po’ felliniana). Due note ancora.
Una per il coro: in una tragedia che lascia al coro poco spazio, Livermore ha saputo condensare quei pochi momenti in una performance tra le più forti in scena, supportato da otto artisti ( i due Dioscuri e Bruno Di Chiara, Silvio Laviano, Django Guerzoni, Giancarlo latina, Turi Moricca, Marouane Zotti) che incarnano nell’impatto visivo la drammaticità delle figure fiamminghe, nelle movenze sono capaci di restiture la leziosità della danza dei salotti e il vigore della danza contemporanea, nella voce la sincronia del dramma.
La seconda è un doveroso omaggio a Simonetta Cartia, Teunoe. La potenza del suo canto lirico è il fraseggio di tutta la messinscena in questa tragedia della risemantizzazione del teatro euripideo.
“Andiamo all’opera!” è l’invito di Livermore. A quale opera? In quale teatro? Nel teatro di Euripide, in quel teatro greco che ha visto ieri sera ( e fino al 22 giugno) la messinscena più originale della sua storia, la messinscena più classica della sua storia.