Primavera del 1969: avevo diciott’anni. Suona il telefono, risponde la mia Mamma. “C’è qualcuno che ti vuole sfottere. Dice di essere Nino Rota …”
Era lui, invece. L’avevo conosciuto da qualche settimana, per caso, all’auditorium romano del Foro Mussolini (ribattezzato Foro Italico), nel complesso di meravigliosa architettura “razionalista” realizzato dall’Odiato Regime. Lì si svolgevano i concerti (se li rievochiamo, pare di leggere le Mille e una notte) che il grande maestro Siciliani organizzava con l’Orchestra della Rai di Roma, allora la migliore d’Italia. Rota aveva occhi trasparenti e limpidi come un lago alpino, nei quali la luce della benevolenza sorpassava persino quella dell’intelligenza. Infatti, era una sorta di Santo laico. Era in compagnia di Vinci Verginelli, il latinista che aveva scritto i testi per alcune delle sue opere più serie e impegnative. Si parla, io accenno alle mie speranze di diventare uno storico della musica… Era intimo amico del mio Maestro, Vincenzo Vitale. “Beh, se sei allievo di Vincenzino …Vuoi venire a cena con noi? Guarda, però, che se accetti, data la nostra fama, diranno subito che sei … come dire?” Non voleva pronunciare il sostantivo, per delicatezza. “Maestro, non oso, per l’onore…!”. Osai. Il giorno che mi chiamò a Napoli (immaginate l’epoca: da un telefono pubblico a gettone!) m’invitò a colazione dandomi appuntamento al Conservatorio. In un vicolo contiguo a piazza Dante (il meraviglioso Foro Carolino poi sconciato con la statua del Poeta e, adesso, con una stazione della metropolitana) c’era una bettola a una luce chiamata ‘O fetente. Naturalmente, questa delizia non c’è più. “Hai mai mangiato l’insalata di alghe? Provala, è buona!” E me la servì egli stesso. Ecco com’era uno dei più grandi compositori italiani del Novecento, scomparso quarant’anni fa. Nessuno ne ha preso il posto.
Ancora un bellissimo ricordo. A settembre del 1970 avvenne a Perugia la prima assoluta del suo oratorio La vita di Maria. La selezione dei testi, in che avevano parte anche Vangeli apocrifi, l’aveva fatta Verginelli. Allora, la “Sagra Musicale Umbra” era pur essa retta dal maestro Siciliani. Dirigeva lo stesso Rota, un po’ impacciato perché di fare il direttore non aveva mai avuto il tempo, ma con autorità assoluta. Dopo, ci fu una cenetta in una trattoria. Poche persone. Dai Grandi che ho avuto il privilegio d’incontrare, oltre che dalla mia famiglia, ho ereditato il fastidio per le tavolate; a non dire gli esecrandi pranzi a buffet, detti “in piedi”. Eravamo già seduti quando arriva Fellini. Dalla tavola parte un applauso. Il regista alza la mano destra: “Non infondato, ma fuori luogo!” Il Poeta del cinema gli sarebbe sopravvissuto per altri quattordici, ma rimase, alla sua scomparsa, come privo d’una parte di se stesso. Tale era la fratellanza artistica e umana tra un sommo regista e un sommo compositore.
Rota era stato un bambino prodigio; la sua prima composizione, un impegnativo Oratorio, venne personalmente diretta da lui a undici anni. Ma quanti bimbi prodigio si perdono per strada! Rota non poteva perdersi. A metà dell’Ottocento, Liszt aveva definito Saint-Saëns “un musicienissime”, “un musicistissimo”. Il neologismo superlativo sembra coniato per Rota. Conosceva tutto, aveva una memoria musicale paragonabile a quella di Giuseppe Patanè e Franco Mannino; era dottissimo e direttore di Conservatorio, oltre che esser stato insegnante di Composizione di livello eccelso. Il suo catalogo è impressionante.
Oggi lo si ricorda soprattutto quale autore di colonne sonore per il cinema. In quanto tale, è stato il più grande del Novecento: ed è impegnativa affermazione, se si pensa che a fondare quest’arte negli Stati Uniti era stato un compositore del livello di Erich Korngold, in proprio operista e sinfonista di alta qualità, e che già nel 1925 una colonna sonora (per il film muto Salammbô di Pierre Marodon), era stata composta da un mammasantissima quale Florent Schmitt. Or non affronterò nemmeno il discorso di natura estetica: se la colonna sonora sia un genere di arte inferiore rispetto alla musica cosiddetta pura. La teoria qui non arriva da nessuna parte: occorre guardare alla qualità artistica.
Rota alle colonne sonore si era sistematicamente dedicato. Se si guarda il suo catalogo si resta, anche qui, sbalorditi per il numero. Più dovrebbe restarsi sbalorditi per il valore. Per fare un elenco limitato ai soli principali registi con i quali ha collaborato, ecco Soldati, Zampa, Monicelli, Lattuada, Comencini, Bolognini, King Vidor, Zeffirelli (uno dei suoi films migliori: La bisbetica domata), Visconti (nel Gattopardo ha dato un contributo indispensabile), Steno, Coppola. Gli venne negato l’Oscar per Il padrino, lo vinse con Il Padrino – Parte seconda.
Ma con Fellini, il genio assoluto, la simbiosi fu totale. Rota possedeva una natura complessa: era come una di quelle bambole aperta la quale ne trovi un’altra, e altre ancora. In lui v’era una vena di surrealismo e grottesco, fin di crudeltà, con improvvisi squarci verso l’etere e di pietà verso tutto ciò ch’è vivente, natura inanimata come animata, che mi pare sia la stessa cifra stilistica di Fellini. Dai Vitelloni a La strada, da La dolce vita a Boccaccio ’70. Mi fermo un attimo su questo film perché l’episodio di Fellini è un tributo alla grandezza, pur essa somma, di Peppino De Filippo quale attore surreale e tragico. (Il rapporto di Rota con Eduardo non mise capo, secondo me, a niente di buono). Poi 8 e ½, Giulietta degli Spiriti, Satyricon, Roma, Amarcord. Una serie impressionante di capolavori, di veri monumenti della civiltà per un trentennio. È l’intero ritratto dell’Italia: non quella del dopoguerra, dell’Italia eterna. Di tutti noi. Fossero vissuti nel Rinascimento, Fellini sarebbe stato Bronzino, Rota insieme Luca Marenzio e Adriano Banchieri. La “rivoluzione vicissitudinale” ha portato l’arte figurativa e la musica “forte” ai margini della vita artistica e sociale. Restava il cinema. Rota è stato non il collaboratore, il co-autore delle opere del nostro più grande regista.
Se medito sul fatto che è finito all’età che oggi ho io, mi si stringe il cuore, al paragone. Mi resta un suo preziosissimo dono, giuntomi poco prima della sua morte. I volumi rilegati, edizione per bibliofili, de Il mistero dell’amor platonico di Gabriele Rossetti. Li guardo, e penso più a Rota che a Platone.
*Da Libero del 25.4.2019